di Stefano Lupo
La centralità geo-strategica acquisita negli ultimi anni dall’area marittima compresa tra il canale di Suez, o più propriamente, alla fine del Mar Rosso, tra lo stretto di Bab el Mandeb, e i chokepoints (passaggi marittimi obbligati) della Malacca, della Sonda e di Lombok, quindi la grande area dell’Oceano Indiano punto di incontro tra i mercati europei, gli esportatori energetici e i nuovi importatori asiatici, non deve sorprendere. Essa, con l’emersione economica e contestualmente geopolitica dei nuovi competitors internazionali come Cina e India, rappresenta la naturale risposta all’aumento dei traffici commerciali via mare, soprattutto legato al boom dell’approvvigionamento energetico.
Un fenomeno già previsto a inizio del XX secolo, quando ancora l’Atlantico rappresentava il focus internazionale, da studiosi come Karl Haushofer, che nella sua “Geopolitica dell’Oceano Pacifico” (1925, 1928, 1937) prevedeva per il XXI secolo il centro politico ed economico inclinato verso il Pacifico, passando per l’Oceano Indiano, e successivamente ampliato nella sua analisi strategica soprattutto da chi, come Alastair Buchan, percepiva nella nuova priorità dell’Oceano Indiano un cambiamento strutturale, structural change, non già quindi congiunturale, caratterizzato da uno spostamento di gravità sempre più orientato verso i litorali asiatici dell’Estremo Oriente, di cui il Mar Indicus rappresenta passaggio obbligato.
La teoria, ripresa anche da uno dei più importanti pensatori realisti del secolo scorso dopo Morgenthau, Henry Kissinger, con il suo Power Shift, sembra risultare la summa teorica dell’azione geopolitica compresa nel tratto monsonico del Rimland di Spykman, e soggetta più ai dettami strategico-marittimi di Corbett – centralità del controllo delle comunicazioni e minaccia perpetua ad esse tramite l’onnipresenza latente di una flotta ostile (fleet in being) – che di Mahan, troppo ancorato a una declinazione esclusivamente navale del più onnicomprensivo potere marittimo, componente fondamentale di ogni “Grande Strategia” che si rispetti, così ardua da adempiere, così facile da compromettere.
La contestualizzazione geografica e teorica di cui sopra è propedeutica agli obiettivi di fondo che questo Research Paper si prefigge. In prima battuta, la disamina del ruolo geopolitico e geo-economico del porto pakistano di Gwadar e di quello iraniano di Chabahar, al centro della nuova interazione a quattro Cina-Pakistan con Iran-India, è propedeutica per un’ampia trattazione dell’impatto strategico delle infrastrutture marittime nell’area calda dell’Oceano Indiano, per la triplice valenza economica, politica e militare che esse rivestono. In secondo luogo, la dinamica Chabahar-Gwadar è utile introduzione della rivoluzione geopolitica in atto in Asia, che sembra mettere sempre più in collegamento mare e terra, potenze marittime, o presunte tali, e poteri continentali, superando l’analisi univoca dell’emersione oceanica cinese e indiana (ormai è ampiamente dibattuto il discorso delle Strings of Pearls): obiettivo della seconda parte sarà appunto quello di delineare le direttrici principali dei grandi giochi in divenire, focalizzando l’interesse in particolare sulle parallele d’azione tra controllo marittimo e penetrazione geo-energetica terrestre, per arrivare alla piena comprensione del ruolo residuale del potere marittimo, quanto meno in questa parte del mondo, sempre più al servizio del macro disegno economico internazionale delle potenze interessate. La prima e la seconda parte della Research servono come base fattuale ricca di spunti e di analisi fattuali per tentare di rispondere a un quesito teorico potenzialmente di ampia portata: può l’emergere di più attori internazionali in un’area, come quella considerata, altamente densa di vettori strategici nord-sud ed est-ovest, arrivare a compromettere del tutto gli schemi degli antichi schieramenti di alleanze? Detto in altri termini, può essere giunta la congiuntura geopolitica tale per cui si possano prospettare, oltre agli power shifts previsti da Buchan e da Kissinger, anche una serie inedita di nuove concentrazioni di interessi e quindi nuovi allineamenti tra attori originalmente contrapposti? Possono convergere grand strategies apparentemente divergenti e ostili? La risposta a cui si perverrà alla fine dello studio sembra essere positiva: la frantumazione dello schema bipolare post guerra fredda e l’emergere di nuovi attori ha reso il meccanismo delle alleanze sempre più fluido e precario, più spesso orientato a singole dinamiche, che a obiettivi di lungo periodo. Questo research paper cercherà di presentare le prove di un possibile scenario di nuove convergenze, di medio periodo, che sfuggono ai consueti dettami rigidi e dogmatici della maggior parte delle trattazioni in ambito internazionale ( lo dimostrano le ampie critiche rivolte dalla maggior parte della stampa americana verso la fluida e ondivaga politica estera di Obama, più attenta alla congiunture); un nuovo allineamento di interessi è certamente possibile ma difficile nella sua piena realizzazione. Sarà necessaria una cospicua sommatoria di interessi concomitanti per poter sostenere uno shift al momento in fieri: l’ascesa dell’Iran come possibile elemento equilibratore e non già come fattore destabilizzante, di fronte alla possibile caduta in disgrazia del Pakistan, prigioniero del suo rebus geografico e della sua geopolitica troppo spregiudicata, stretta tra la Cina che agisce a tutto campo e i complessi d’accerchiamento indiani, che spingono il sub continente a una nuova e più dinamica politica internazionale.
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