Trascorsi settanta anni dalla morte dello scrittore e sceneggiatore Francis Scott Fitzgerald, sono decaduti anche i diritti patrimoniali delle sue opere. Al via dunque le nuove pubblicazioni di Racconti dell'età del jazz, Tenera e la notte, ma soprattutto Il grande Gatsby. Quest'ultimo romanzo, forse il più celebre di Fitzgerald, ha scatenato gli editori, così nei primi mesi del 2011 sono uscite in libreria cinque diverse traduzioni. Nel mese di giugno, poi, tre traduttori hanno ricevuto ex aequo il Premio von Rezzori di Firenze: Tommaso Pincio per Minimum Fax, Franca Cavagnoli per Feltrinelli e Roberto Serrai per Marsilio. Discostandosi necessariamente dalla datata versione di Fernanda Pivano (del 1950), ognuno di loro ha comunque avuto un approccio diverso al lavoro di traduzione. Qualcuno ha preferito uno stile più autoriale, semplificando certi passaggi e rendendoli più fruibili al lettore, mentre qualcun altro si è attenuto maggiormente alle parole originarie dell'autore, comunque legate alla propria lingua di appartenenza. Quindi, tralasciando l'uso di un aggettivo piuttosto che un altro, si potevano notare nelle tre traduzioni differenze non trascurabili legate in special modo a espressioni gergali e frasi idiomatiche: chi aveva optato per una traduzione più intuitiva, cercando di rimanere fedele alle intenzioni dell'autore ma comunque adattando il senso alla lingua italiana, e chi invece aveva scelto una traduzione più letterale. In quest'ultimo caso, c'era un'ulteriore distinzione tra chi aveva apposto note a margine per approfondire il significato dell'espressione in lingua inglese e chi ne aveva fatto a meno, preferendo affidarsi alla curiosità o all'interpretazione del lettore.
Quanto fin ora detto rimanda a un problema più generale, quello cioè riguardante ogni testo tradotto da una lingua all'altra. È risaputo che spesso viene attribuita esclusivamente ai traduttori la responsabilità di aver usato un termine piuttosto che un altro. Magari i poveri traduttori si prendono pure gli accidenti di un numero indefinito di lettori che ritengono di aver scovato un errore, un'inesattezza o una parola poco fedele al senso della lingua d'origine. Ma si deve anche dire che molte volte sono le scelte redazionali della casa editrice a imporsi rispetto alle idee dei traduttori. Per non parlare poi di censure e omissioni, che fino al recente passato hanno rimaneggiato, se non addirittura stravolto, testi di letteratura moderna.
Nel caso in cui venga data più libertà a un traduttore, rimangono comunque due strade percorribili, come sosteneva Schleiermacher (filosofo e teologo tedesco) già due secoli fa: dire esattamente ciò che l'autore ha detto, oppure dire quanto era nelle sue intenzioni. Insomma, il traduttore deve lasciare il lettore nelle mani dell'autore, oppure deve adattare al lettore le parole dell'autore? Subentra qui il campo delle preferenze personali, ovvero di chi sia più incline a entrare senza difficoltà nel mondo raccontato da uno scrittore senza porsi tanti dubbi o domande, o di chi, al contrario, necessiti di una mediazione per immaginare la storia nella sua semplice essenza, libera perciò da modi di dire legati a un'altra cultura o da espressioni fuori dall'uso comune per la sua lingua. Ci sarà poi chi predilige le note per avere i chiarimenti desiderati.
Resta il fatto che una traduzione comporti un'opera a sé stante, una vera e propria riscrittura del testo e non solo una sua trascrizione in altra lingua. I traduttori spesso si trovano alle prese con mesi di duro lavoro; in certi casi addirittura di anni, data la mole e la difficoltà proprie di determinati volumi.
Concludo con una citazione. Antonio Gramsci diceva un tempo che “I traduttori sono pagati male e traducono peggio”. Non credo di sbagliare nel sostenere che oggi invece abbiamo una schiera nutrita di traduttori validi e competenti. E, immagino, anche il loro compenso sia diventato più soddisfacente.
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