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I Signori della Strada-Nuova Versione Integrale

Da Albix

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AVVERTENZA

Questo romanzo,  breve e informale, è ambientato nelle strade di  Londra,  la città che fu regno della Musica  Rock e perciò di Libertà, Pace e Amore. Londra negli  anni sessanta e settanta del ventesimo secolo rappresentava un luogo ideale e mitico per molti giovani dell’ Europa continentale. Ma  non tutti quei giovani che realmente vi si recarono, trovarono poi la strada per rientrare: alcuni non vollero, altri, pur forse volendo,  non poterono; tra questi ultimi vi era chi non la ricordava più e chi già percorreva altre strade, in questo o in altri mondi:  tutte strade senza ritorno.

I luoghi di ambientazione sono   veri,   mentre i personaggi descritti sono frutto della fantasia e dell’inventiva dell’autore al pari delle idee, dei concetti e dei versi non altrimenti contraddistinti.
Chiunque però si identificasse in qualche modo con i personaggi della storia accetti dunque il fatto che gli uomini, gli animali e le cose del mondo fanno parte e discendono da un unico Tutto.

PROLOGO

Quell’anno ero tornato sulla strada a lavorare per la B.B.C., una società che, a parte le iniziali della sua denominazione,  non aveva nient’altro da spartire con la   televisione di stato  britannica. La Brian Brook Company, infatti, non  affliggeva la gente con noiosissimi polpettoni serali, né  raccontava spudorate  bugie sugli avvenimenti politici nazionali e internazionali, né tanto meno ficcava il naso nelle vicende della vita della regina e della famiglia reale in genere.

La Compagnia  per la quale lavoravo, deliziava invece il suo pubblico con la vendita di gelati e bibite, appoggiandosi logisticamente ad una catena di negozi di souvenirs, dolciumi e tabacchi,  strategicamente dislocati in diversi punti di quella grande area londinese nota con il nome di West End.

Questa vasta e famosa area metropolitana londinese, la quale include anche  il quartiere di Soho e numerosi piccoli e grandi parchi,  è delimitata da un perimetro   che si snoda sulle importanti strade di Oxford Street, Charing Cross Rd, Shaftesbury Av e  Regent’s Street formando un trapezio irregolare i cui quattro vertici passano  da Tottenham Court Rd a Oxford Circus; da lì sino a Piccadilly Circus per chiudersi infine a Leicester Square, ad un passo da Trafalgar Square, dove la statua dell’ammiraglio Nelson, secondo il probabile intento delle autorità pubbliche che la vollero così elevata, dava il suo monito di grandezza e di gloria a tutti coloro che da lì sarebbero passati, francesi , stranieri e britannici di tutto l’Impero.

Certo in quegli anni, la grandezza e la gloria dell’Inghilterra, dopo il quasi totale disfacimento dell’Impero britannico sembrava più remota e lontana della statua del grande condottiero dei mari, tanto più che la nostalgia (e quella della grandezza non fa eccezioni) è un sentimento che si manifesta  più acutamente nel momento in cui, passato il tempo migliore (o presunto tale) subentra inevitabile una crisi. E che la Gran Bretagna fosse in crisi, sul finire degli anni settanta del ventesimo secolo, apparve chiaro subito anche a noi “street’s traders” che, vivendo letteralmente tra la gente, avvertivamo gli umori del cittadino medio in maniera emozionalmente diretta.

Per strada si percepivano malcontento e nervosismo, anche se i guai veri e propri dovevano ancora arrivare, di lì a poco, con l’irresistibile ascesa al potere dei Conservatori capeggiati  da  Margareth Tatcher (divenuta nota nel prosieguo con il soprannome di “Lady di Ferro”), che avrebbe segnato la fine di un ciclo nella vita amministrativa londinese,  caratterizzato da una politica  di tradizionale garantismo  delle libertà   democratiche e dalla simpatia a favore delle classi sociali più deboli.

D’altronde,  la metropoli inglese,  aveva rappresentato sin dal sorgere dei primi gruppi musicali  di liberazione e protesta (nati sull’onda del movimento americano degli  hippies, noto anche con il nome della “beat generation”) un deciso punto di riferimento culturale, contribuendo a fare  di Londra la Capitale del Movimento Rock, dove i  profughi delusi dall’illusione della fallita rivoluzione giovanile del ‘68,  cercavano un rifugio sicuro in fuga dal riflusso della reazione che in tutto il mondo ad essa era subentrata.  Ed era proprio lì,  a Londra, che ancora riuscivano a scorgerne gli ultimi sprazzi di fulgore,  prima del suo definitivo tramonto.
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Così, di buon grado, accettai di riprendere il mio posto e di vendere bibite e gelati nella strada, ai passanti di tutto il mondo, con a lato  una macchina refrigeratrice che trasformava il latte in gelato ed una macchinetta erogatrice di aranciate e limonate; e con indosso un lindo grembiule.
dalle capaci tasche frontali, legato attorno alla vita.

D’altronde come avrei potuto lasciare la strada? E per fare che cosa? Forse per ammuffire in qualche ufficio con l’aria condizionata in estate, il riscaldamento in inverno, e la puzza di scartoffie sotto il naso?
Non c’era altro mondo per me, oramai, se non quello; non altro destino, non altra vita avrei potuto desiderare,  se non quella libera degli “street’s traders”.

Tornare nella strada, significò così per me rivivere sin dall’inizio la mia avventura in quella città misteriosa e affascinante che a torto e superficialmente, viene troppo spesso reputata fredda  e inospitale, considerando anche che gli  Inglesi   mai o quasi mai entrano in contatto diretto con i visitatori.

Questa storia è  dedicata a Londra ed ai cari luoghi ove ho vissuto in particolare, ma è altresì dedicata a tutti i popoli che quei luoghi, con tanta varietà e vivacità, animarono in quegli anni e che di seguito attraverseranno la scena  principale del romanzo: le strade di Londra.

CAPITOLO PRIMO
West End e East End

Gli “street’s traders”, cui la traduzione italiana di venditori ambulanti non rende che parzialmente il senso, costituivano un microcosmo nel mondo che li conteneva, cioè la strada,  e nel quale articolavano i loro numerosi ingranaggi.

Erano di tutto e dappertutto: giornalai, lattai, fruttivendoli, autisti, pittori, musicisti, venditori tra i più vari e disparati, specchiai di Carnaby street, barboni, predicatori, mistici e vaneggiatori, uomini-sandwich, artisti, cialtroni, parolieri, imbroglioni e imbonitori, perdigiorno, ruffiani, prostitute, nobili decaduti, adescatori, lavavetri, spazzini, intervistatori, finti e veri spacciatori, pubblicitari, garzoni, punk, fricchettoni e rockettari e chi più ne ha più ne metta.

Tutti potevano incontrarsi in quel microcosmo circolare, senza capo nè coda, dedalo intrecciato di vicoli, viali, strade secondarie e arterie principali, tutte misteriosamente unite come  una rete osmotica di vasi comunicanti dove i fiumi, torrenti e mari, camminano in una duplice direzione, senza fermarsi mai, un corpo vivo il cui cuore pulsante è l’West End. Al suo interno si ritaglia una serie ancor più intricata di vie e viuzze che va sotto il nome di Soho, dove gli adescatori e le prostitute (in regolare e autorizzata veste professionale) hanno il loro regno.

Le prostitute, ad onor del vero, solo indirettamente potevano essere considerate operatrici “della strada”. Nella mentalità inglese, infatti, una “battona” è totalmente inconcepibile. In Inghilterra tutto si può fare purchè, trattandosi di sesso, non si sappia in giro. Un “si fa ma non si dice” compassato e discreto, tollerato ma mai apertamente ammesso, un atteggiamento di ipocrita e paternalistica accondiscendenza di sicuro e genuino retaggio vittoriano che neppure i movimenti di liberazione degli anni sessanta erano riusciti a spazzar via.

Chi opera nella strada è lui: l’adescatore; colui che fa da trait-d’union verso il paradiso del proibito, ben protetto dagli strali dei benpensanti dal pudore facile, nei sexy-shops. Questi negozi dalle vetrine opache, al tempo sconosciuti e vietati nel nostro Paese,  erano ufficialmente autorizzati per la vendita ed il noleggio di video cassette e riviste specializzate “hard-core” ma in realtà, e tutti lo sapevano, erano sede di commercio infame, ricettacolo ideale per guardoni pruriginosi e pervertiti di ogni genere, repressi sado-maso, forniti a piano terra di protesi idonee al piacere e al dispiacere (fruste, vibratori, seni finti, bambole gonfiabili e sexy-paraphernalia varia) ed appartamentini riservati, sale di proiezione, cellette erotiche con spioncino ed altro ancora ai piani superiori.

Ma se la notte Soho è il cuore pulsante della Londra turistica e godereccia, di giorno il quartiere si uniforma al resto del West End: un enorme centro commerciale e di servizi nelle cui vene scorre un fiume infinito di gente, di mezzi motorizzati e di danaro che attinge un continuo ricambio di nuova vita dalle invisibili arterie dell’immensa rete sotterranea del metrò londinese.

La presenza di questa massa di plancton metropolitano aveva consentito,  in quelle strade,  il sorgere di una variegata fauna di venditori,  tra cui i fruttivendoli spiccavano sicuramente  sia per i variopinti colori delle loro merci , sia perchè i loro carretti (o stalls) venivano sistemati nei più affollati crocicchi e per lo più lungo la Oxford Street.
La loro frutta , tanto bella e appariscente da sembrare finta, spiccava più per qualità e forma che per quantità.

I “fruit’stallers” in effetti vendevano ai passanti, fossero essi abitudinari del“lunch-time” volante,  oppure occasionali turisti,   una mela rossa della California, una “Granny Smith” verdognola del Sudafrica o ancora un cartoccio d’uva siciliana , una banana  o,  magari, ai più esigenti e sofisticati, un avogadro tagliato a metà, fornito con sale e cucchiaino “usa e getta”. Mentre le  poche massaie o ai ristoratori della zona,   trovavano nel vicino mercato di Berwick street prezzi e scelta decisamente più ampi e convenienti.

La “London Fruits Sellers Company” (da cui dipendevano questi venditori di frutta affatto particolari) era  certamente una società con tutte le carte  in regola: autorizzazioni comunali di vendita; licenza di occupazione di suolo pubblico; tesserino di idoneità sanitaria e fors’anche regolari e sostanziosi pagamenti al Grande  Socio Statale:  il vorace Fisco della Corona.

Il vertice societario era quasi interamente formato da Ebrei, eterni e abili finanzieri, sempre  alla ricerca di investimenti e profitti, mentre quello organizzativo, sul campo, per così dire, era in mano agli Inglesi.

In particolare i venditori, che nelle ore di punta erano due per postazione, venivano dal quartiere denominato “East London”, città nella città, sola, vera, ultima Londra per chi si sentiva legittimamente e autenticamente londinese.

La concentrazione ad est del Tamigi dei discendenti degli antichi abitanti di Londinium era proceduta di pari passo alla espansione della capitale inglese ed aveva assunto il senso  e le dimensioni di una vera e propria ritirata strategica nei primi lustri della seconda metà del secolo ventesimo, quando il boom turistico di massa finì per consacrare Londra come Capitale d’Europa.
Il grosso sviluppo commerciale del centro storico aveva fatto lievitare i prezzi delle case e le poche aree edificabili che si rendevano disponibili venivano acquistate da vecchi e nuovi ricchi, tutti smaniosi di investire in un’area che il loro infallibile fiuto giudicava sempre più prossima a divenire un “El Dorado”grazie soprattutto al turismo, come poi sarebbe effettivamente successo.

E i figli e i nipoti di coloro che caparbiamente si erano attaccati alle magioni avite, da un lato allettati dalle profferte di acquisto sempre maggiori  e dall’altro intimoriti e spaventati dalla progressiva invasione dell’elemento straniero e dalla conseguente impennata subita dai prezzi di tutti i generi di consumo e di prima necessità, finirono per mollare la loro modesta casa, i loro laboratori, le botteghe e i piccoli commerci.

E mentre al loro posto sorgevano gli Harrod’s, i Selfridges, i Marks and Spencer e le sedi delle più grandi banche londinesi, essi trovavano rifugio sempre più ad est del Tamigi, nello East End, per l’appunto, dove i responsabili dell’edilizia popolare, sempre solerti ed attenti a simili movimenti migratori interni, gli assegnarono, a seconda del carico di famiglia, degli appartamenti fatti in serie dentro a quartieri tutti uguali dove, se non altro, i londinesi recuperavano un senso di comune appartenenza allo stesso gruppo razziale,  lontano dal caos poliglotta e inquinato della Nuova Frontiera.

E quando superavano quell’invisibile cortina che li proteggeva ad est, entravano nel cosiddetto West End, o nella “town”, o chissà dove,  ma Londra era già alle spalle.

Se c’è un simbolo dell’identità di questo popolo, che ancora resiste, questo è il Cokney. Si tratta di un vero e proprio dialetto inglese, che funge da elemento linguistico di identificazione del gruppo, parlato con una caratteristica cadenza tronca e infarcito di frasi idiomatiche che il resto degli Inglesi trova molto simpatico, se non proprio buffo, un po’ come succede da noi con il romanesco colorito di certi comici di grido, da Petrolini in poi. Ma per i londinesi costituisce il loro linguaggio emotivamente primario, una vera e propria lingua madre.

Anche nella mia compagnia lavoravano diversi di questi “east londoners”.

Uno di loro, che ritrovai al lavoro nei gelati, era Bob, che mi aveva fatto da istruttore, alcuni anni prima, nel breve periodo di tirocinio precedente il lavoro vero e proprio: soprattutto pulizia e manutenzione della macchina, e preparazione dei gelati e delle bibite.

Era un tipo di media statura, con capelli chiari, pettinati a spazzola con un accenno di riga al centro, ed occhi, pure di colore chiaro, molto vispi e mobili sui lineamenti del volto, reso un poco irregolare da due incisivi superiori lievemente pronunciati. Al lobo sinistro portava, con molta naturalezza, un piccolo orecchino tondo in oro, moda,  questa, che sui nostri lidi era ancora di là da venire.

Il suo abbigliamento era al contempo semplice ma ben curato. Una particolare attenzione mostrava tuttavia soprattutto nelle scarpe e nelle magliette, sulle quali  ultime,  solitamente linde ed in tinta chiara, spiccavano immancabili, numerose catenine d’oro, diverse per foggia e per misura, come da noi usano le donne sulle camicette chiare, quando fanno rivivere  certi costumi d’epoca.
Bob era decisamente simpatico. Molto inquieto, stava sempre in giro nei punti vendita viciniori, fossero di colleghi gelatai o di fruttivendoli. Nella sua “pitch”, che era solitamente la più redditizia, aveva durante la stagione alta uno o più aiutanti su cui egli scaricava, in maniera disinvolta e bonaria, la maggior parte del peso lavorativo. Quando gli capitava di stare alla distribuzione, nelle ore di punta, a volte faceva delle cose bizzarre. Ad esempio piantava una fila ordinata e lunghissima di clienti, che dalla macchina dei gelati giungeva talvolta sino al bordo esterno del marciapiede, per andarsene a telefonare.

E nel far ciò, allora, mostrava ai clienti una monetina da dieci pence , prelevata dalla cassettina degli spiccioli, tenendola in alto tra il pollice e l’indice della mano sinistra e sibilando, con il labbro superiore lievemente arricciato sui denti, la fatidica frase: ”I’ll be back in  a minute”, che se ne pronunciava la metà è dire  anche troppo.

E senz’altre spiegazioni spariva all’interno del negozio con passo svelto mentre io cercavo alla meglio di servire gli avventori, i quali, con olimpica flemma, seguitavano a stare in fila, per niente risentiti dal repentino e ingiustificato forfait del mio socio; e se al suo rientro la coda era stata sbrigata mi chiedeva cortesemente, accompagnandosi con un gesto significativo dell’indice sfregato sul pollice,  se avessi delle banconote. E quelle da una sterlina trovavano un’ordinata e rapida sistemazione nelle  tasche del suo grembiule, mentre quelle di taglio superiore venivano sistemate nelle tasche dei pantaloni.

Ma se invece al suo rientro avesse trovato ancora molte persone da servire, cosa che non era affatto infrequente, dato che a Londra, come del resto dappertutto, le file e gli assembramenti richiamano altri curiosi, allora mi chiedeva di farmi da parte tracciando un semicerchio con l’avambraccio sinistro e, afferrati una decina di coni, riusciva a riempirli tutti ruotando la mano abilmente sotto il rubinetto della gelatiera, azionandone contemporaneamente e velocemente la leva con la mano destra e mentre io,  con difficoltà,  ricevevo i gelati nelle mie due mani, per distribuirli, gli avventori, ammirati e riconoscenti, pagavano il prezzo stabilito. E sembrava che avessero la calamita questi clienti, perchè dietro a loro ne arrivavano altri  in crescente numero e lo show di Bob si ripeteva sino a quando  poteva reggere la refrigerazione della macchina. Potenza del suo carisma magnetico. Fu in quel periodo del mio primo noviziato a Londra che cominciai ad amare gli Inglesi.

Se non aveva clienti, invece, leggeva il giornale: The Sun, il Daily Mirror e, soprattutto l’Evening Standard, quotidiano londinese che pubblicava tutto sulle corse dei cavalli, sugli altri avvenimenti sportivi e mondani del giorno, oltre a qualche resoconto di politica locale, e più raramente internazionale, che l’attenta autocensura di quella stampa riteneva utile far conoscere alla gente. Non leggeva nè molto concentrato nè molto a lungo, chè infatti alzava lo sguardo di quando in quando per fischiare o richiamare l’attenzione di qualche vistosa ragazza di passaggio, sulla bontà delle cui forme non sempre concordavamo, e se cercavo di trascinarlo a commentare qualche notizia politica o un argomento di vasta eco sociale,  le sue risposte erano sempre superficiali, quand’anche non evasive. Inizialmente notavo una certa sorpresa nei suoi occhi quando ascoltava attentamente il mio ragionare, ed io non sapevo bene come interpretarla. Con l’andare del tempo, poi, quando prendemmo a frequentarci, qualche volta, fuori dall’orario di lavoro,  cominciai a capire che ai suoi occhi appariva inusuale, o addirittura bizzarro, che un gelataio, e per di più italiano, avesse tempo e modo di occuparsi di argomenti dei quali neanche lui, che pure era inglese e londinese,  riusciva a raccapezzarsi o quantomeno ad interessarsi.

Così, seppure visto in quella veste di fenomeno, un po’ buffo e originale, mi accorsi che il suo atteggiamento nei miei confronti mutava gradatamente, passando dagli iniziali snobismo e indifferenza ad una cordiale, sincera simpatia che io non volli o non seppi trasformare in un’amicizia più profonda, forse anche a causa della mia immaturità e della mia insicurezza.

Sia Bob, sia gli altri rivenditori, tra cui vi erano anche due suoi fratelli e una sorella, avevano lasciato la scuola subito dopo aver adempiuto agli obblighi di frequenza; anzi, molti anche prima di tale termine.
Di natura ribelle e refrattari alle severe regole dei precettori inglesi, avevano preferito la vita libera della strada; senza superiori gerarchici invadenti alle costole, a rimproverare, redarguire, guidare; senza obbligo di forma alcuna (non era infatti evento raro lo scambio di parolacce con qualche cliente troppo esigente o sprovveduto); e con un ‘ottima retribuzione al di sopra dei guadagni medi di operai e impiegati.

Altri venditori della strada erano i giornalai.
Anch’essi provenivano quasi esclusivamente dall’”East London” ma era assai raro trovare tra di loro dei giovani. Lavoravano all’aperto tutto l’anno occupando degli angoli all’uscita delle stazioni metropolitane più importanti, servendosi qualcuno di una semplice scatola metallica entro la quale stavano i giornali, altri di un tavolino con sedia, pure di metallo, e da lì emettevano dei suoni incomprensibili che si confondevano con gli spifferi provenienti dalle viscere della terra, attraverso gli infiniti meandri del metrò;  ed in quei suoni  non riuscivi più a riconoscervi i nomi delle testate dei quotidiani cittadini Evening Standard e l’Evening News, che essi pronunciavano in una forma abbreviata e deformata dall’abitudine, simile al rantolo di una belva ferita,   per attirare l’attenzione dei distratti e frettolosi passeggeri in transito alle imboccature delle gallerie sotterranee.

L’Evening News era in realtà solo una imitazione del più famoso Evening Standard. Quest’ultimo veniva pubblicato in molteplici edizioni dalle sette del mattino sino a tarda sera, con una frequenza di due-tre ore circa. Da un’edizione all’altra cambiava solo la prima pagina che attirava il lettore su notizie eclatanti. Veniva distribuito a tali venditori con una rete di consegna davvero fenomenale. Ad ogni nuova edizione, nell’arco della stessa giornata, si vedeva arrivare il pulmino della società distributrice, con la testata in nero su sfondo giallo, e da lì, con il motore ancora acceso,  vedevi volare uno o più  pacconi di giornali freschi di stampa. L’Evening Standard non aveva una precisa fisionomia politica
( almeno non nel senso che noi italiani diamo a tale espressione) e forse alternava la propria ideologia in sintonia con i partiti che si avvicendevano nella conduzione del massimo organismo amministrativo londinese : “Il Great London Council”.

Tutti i giornalai che andavo via, via conoscendo, mi trasmettevano una strana impressione: quella di avere sempre fatto  quel lavoro lì. Non solo per la   voce rauca che li caratterizzava, ma anche per l’abbigliamento molto trasandato.   Una patina di barba, mai completamente rasata, gli copriva la pelle del viso, rendendoli ancora più bruni di quanto già non lo fossero a causa delle lunghe ore di esposizione a quell’aria malsana.

Mi pareva inoltre che avessero sempre freddo, anche in estate, come se ormai nelle ossa gli fossero  per sempre penetrati l’umidità ed il soffio agghiacciante delle correnti d’aria che li investivano nelle loro improvvisate postazioni di vendita. Indossavano alle mani dei guanti con le punte mozze per poter afferrare agevolmente soldi e giornali e si scaldavano con l’immancabile tazzina di thé al latte che compravano,  per asporto,  dal più vicino snack bar.

A discapito del loro aspetto, che nei giorni di nebbia intensa si fondeva a pennello con il paesaggio circostante, divenendone anzi elemento caratteristico, al pari delle colonne rosse della Royal Mail, delle cabine telefoniche e dei taxi neri, le sensazioni che mi trasmettevano erano però positive. Non dico che fossero allegri, ma gioviali sì.  Una giovialità serena e rassegnata, come se la diffusione degli avvenimenti, londinesi e del mondo intero, contenuti nei loro giornali, li avessero resi impermeabili alle emozioni, ponendoli al di sopra delle vicende umane, quasi fossero degli dei indifferenti e imparziali nei confronti dei loro destini.

Quando mi passavano accanto, lì dove lavoravo, non mancavano mai di solidarizzare con un cenno lieve di intesa,  emettendo al contempo un saluto, costruito più sul suono che sulle parole, del classico veloce interloquire londinese, che dell’originale “are you all right?” salvava soltanto quel sibilo, come del vento che era entrato nei loro corpi,   composto di tre, forse di sole due sillabe,  appena velate da una “erre” già morta in gola ancora prima di uscirne, e una vocale “o” iniziale, lunga e sonora.

Il tranquillo (si fa per dire) tran tran quotidiano di Oxford Street veniva talvolta rotto dall’apparizione improvvisa e quasi sempre fugace degli “smugglers”.
Erano costoro dei lestofanti (manco a dirlo londinesi doc marcati East London) meno malvagi e disonesti di quanto il loro soprannome potesse far presumere, che erano capaci di improvvisare a tamburo battente una vendita di falsi di marca e di paccottiglia autentica,  inscenando per strada una farsa meglio congegnata di una commedia di Goldoni. Agivano di solito in gruppi di quattro,  ognuno dei quali con un ruolo ben preciso.

Arrivavano in un’ora di massima punta (tra le 11,30 e le 16), dopo aver parcheggiato il loro furgone in una delle stradine interne e occupavano un segmento di marciapiede compreso tra due traverse; e mentre i due pali si sistemavano in ciascuna delle due intersezioni, per cui non poteva mai succedere che arrivassero inattesi i due bobbies di pattuglia, gli altri due sistemavano al centro del marciapiede lo scatolone con la merce da vendere (profumi, portafogli, ninnoli, accendini, orologi, bigiotteria, che variava a seconda dei giorni, ma era sempre merce taroccata).

Uno dei due, lo speaker, seduto su una delle scatole di cartone con cui avevano trasportato la loro merce contraffatta, rovesciata a mò di sedile, mentre su un’altra più alta venivano esposti gli oggetti da piazzare, sciorinava qualità e prezzo delle sue merci in quell’incomprensibile dialetto londinese che già di per sè era uno spettacolo impagabile; l’altro, il provocatore, si piazzava dietro il capannello di gente che regolarmente si formava attorno al compare, attratta da quell’improvvisato show e facendosi largo a gomitate, con i soldi in vista tra le dita  sollevate, gridava “…a me tre!”, “ne voglio due!”, “ne prendo quattro”, trascinandosi dietro decine di acquirenti che a volte davano i soldi senza sapere bene neppure che cosa stessero comprando.

Una volta successe che uno dei due pali, accortosi dell’arrivo dei piedi piatti diede l’allarme. Nel giro di cinque secondi, non senza aver prima tranquillizzato gli occasionali clienti sulle loro buone intenzioni, merce, soldi, scatole e malandrini erano già spariti inghiottiti dal vicolo opposto rispetto alla direzione d’arrivo dei poliziotti.
E dopo che questi, completamente ignari, erano spariti alla vista acuta dei pali, nello stesso punto di prima si riformavano banco di vendita e capannello; e occorre aggiungere che l’interruzione giovava non poco agli affari della banda, forse perchè la paura della polizia che i suoi componenti mostravano, vera o falsa che essa fosse, convinceva la gente che l’affare proposto doveva essere di gran lunga vantaggioso. Beata ingenuità degli inglesi e dei  turisti londinesi! Pensare che a mio padre, nella sua attività di orologiaio, sin dal secondo dopoguerra,  portavano a valutare dei finti orologi d’oro che gli scaltri napoletani riuscivano a rifilare agli allocchi di turno, fingendo che fossero refurtiva ricercata dalle forze investigative pubbliche e private sulle tracce dell’ultima rapina del secolo. Anche se la sceneggiata napoletana, come è noto, è alquanto diversa dalla commedia inglese. Ricordo che Bob mi confessò una volta di essersi guadagnato da vivere in quel modo per diverso tempo e di conoscere per essere ragazzi in gamba, quelli che lo praticavano.

Altri street’s traders che ebbi modo di conoscere a Londra erano gli “specchiari”.
Ad eccezione di qualche postazione isolata, gli specchiari erano per lo più dislocati in una stretta rete di strade attorno alla famosa Carnaby Street, vero e proprio fulcro commerciale della Londra turistica e rocchettara sin dall’epopea dei Beatles; un poco già decaduta,  ma ancora grande polo di attrazione in quella seconda metà degli anni settanta. Tutte le effigi dei simboli consumistici e della nuova mitologia occidentale, che trovavi riprodotti nelle T- shirts vendute come souvenirs nei numerosi negozi che occupavano la breve strada,  regno del consumo turistico spicciolo, unitamente ai simboli propri di Londra, venivano riprodotti su specchi di diverso formato e venduti per la strada davanti a quegli stessi negozi, che costituivano anche il loro deposito e magazzino.

Da Marylin Monroe ad Humphrey Bogart;  da Gin Beef Heart alla Coca Cola; dai modelli stilizzati liberty alla Union Jack passando per le birre irlandesi l’whiskey scozzese, i gruppi rock e persino la famiglia reale in pompa magna, tutto veniva riprodotto su quegli specchi colorati,  delicatamente incorniciati e venduti da un minimo di 99 pence a un massimo di 20 sterline a seconda del loro formato e di quelli del portafogli e del bagagliaio del turista acquirente.

Gli specchiari di questa zona erano quasi tutti Italiani o Spagnoli. Giovani venuti su per studiare la lingua e conoscere la città; oppure per sfuggire un clima economico e politico di riflusso e, comunque, tutti richiamati dal grande fascino che Londra capitale del Rock esercitava ancora sui giovani di quell’Europa più povera e vi cercavano,  insieme ad una maggiore libertà, un lavoro che gli consentisse di campare decorosamente,  contando soltanto sulle loro forze e senza pesare sulla famiglia.
Tra gli italiani spiccavano i fricchettoni,  contraddistinti dal tipico abbigliamento apparentemente trasandato. Io li chiamavo i fratelli minori dei sessantottini. Ma tra gli specchiari di Carnaby Street non mancavano neppure questi ultimi e Tommaso ne era un autentico e notevole rappresentante.

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