Più misterioso era invece “Colby”, un gallese ancora prestante, nonostante conducesse quella vita errabonda oramai da svariati anni.
Si diceva di lui che fosse stato al servizio della “Metropolitan Police”.
Capitò una mattina che passasse per la piazza una banda della “Salvation Army”, con grande spiegamento di suoni di trombe, tamburi e di canti inneggianti alla Regina, agli eroi nazionali, a Dio Onnipotente ed alla Misericordia Divina, con in testa i capi gallonati in alta uniforme, tronfi ed impettiti come generali, e in coda le questuanti dal viso angelico ed ispirato con i capelli raccolti in una cuffia, come tante suorine e la cassettiera per le offerte appesa al collo con la scritta “thank you”.
Colby si era accorto del sopraggiungere dell‘Esercito della Salvezza proprio mentre si dirigeva verso le sue panchine preferite, al centro della piazza.
Dovette sembrargli rischioso esporsi sulla piazza, poiché, con quattro salti felini si era rifugiato all’interno del locale, andandosi a nascondere proprio dietro la macchina dei gelati. Non visto, da lì, faceva dei gestacci all’indirizzo del corteo che sfilava gioioso e glorioso, muovendo l’indice ed il medio della mano destra dal basso verso l’alto e poi incrociandoli a mo’ di scongiuro e pronunciando frasi oltraggiose ed irripetibili nei suoi confronti.
- “ L’ultima volta che mi hanno messo le mani addosso”- mi raccontò appena vide scampato il pericolo – “ mi hanno persino menato per convincermi che il latte è più buono del mio poonch; ma io gliel’ ho detto, sai, che sono stufo di subire imposizioni e che non voglio essere redento da loro! Tanto più che sono una manica di maniaci sessuali e di vecchie acide rinsecchite che non servono neppure per succhiarmi l’uccello!”-
E concluse con un un’altra caterva di improperi tra cui afferrai distintamente un “all’inferno voi e tutti i pagliacci in divisa dell’Impero Britannico di Sua Maestà la Regina Elisabetta II!”
E mentre pronunciava queste ultime parole era già via, pronto a riprendere la sua personale ricerca, Dio solo sa di chi o di che cosa.
Il dormitorio di questi barboni è all’aperto, sul retro delle stazioni metropolitane; Charing Cross e Victoria Station vanno per la maggiore.
Si avvolgono nel cartone per proteggersi dall’umido di cui sono impregnati i muri e il suolo e per ripararsi dal vento gelido che spesso soffia dal vicino Tamigi.
I più fortunati rientrano però a dormire nei quartieri periferici, in qualche umido sottoscala o in qualche sordida stanzetta, tra topi e rifiuti di ogni genere.
Non di meno, preferivano tutto questo ai dormitori pubblici, per la verità non molto numerosi ma sicuramente più confortevoli, soprattutto per il fatto che tale ospitalità era subordinata all’accettazione di un programma generale di recupero e di reinserimento sociale che essi, ostinatamente rifiutavano di assecondare.
Ve n’era anche qualcuno del tutto asociale, che rifiutava persino la compagnia degli altri barboni ed infatti lo si vedeva sempre da solo.
Uno di questi era il “gigante nero”.
Era costui un giamaicano alto e grosso, sempre avvolto in un cappottaccio grigio e pesante; girava continuamente in lungo e in largo per la piazza, grattandosi immancabilmente la testona ricciuta e lanosa, oppure la schiena e le gambe e non salutava mai nessuno.
Una volta, e fu l’unica, si avvicinò a chiedermi un gelato e dovette pensare che mi aspettassi i soldi, perché mi attaccò con frasi arroganti, nel suo incomprensibili dialetto giamaicano. Aveva gli occhi rossi e gonfi.
Dopo la prima scarica di improperi diede un morso tremendo a quel povero gelato, pappandoselo quasi per metà. Poi, visto che io ero rimasto impassibile, pronunciò ancora qualche mala parola, con minore convinzione di prima e si allontanò.
Sperai tanto di non avere mai più niente a che fare con quell’energumeno, anche per paura dei suoi indesiderabili ospiti.
Ma come lo vidi, in lontananza, riprendersi a grattare, capii che non c’era alcun pericolo: le pulci gli si erano proprio affezionate.
………………continua………………………