Avvenne un giorno che Bill, un amico inglese che faceva il manager in una officina di autocarrozzeria si ritrovasse disponibile, ad un prezzo molto favorevole, una moto Honda 250 e che mi offrisse di acquistarla ad un prezzo veramente speciale.
Io non avevo mai avuto una moto ed ero alquanto indeciso se accettare o meno la sua offerta, anche perché a Londra si circola aulla sinistra e non mi sarei sentito del tutto a mio agio. Poi, incoraggiato dal prezzo e dal fatto che sino a quella cilindrata si poteva cominciare a guidare da subito, apponendo semplicente sul davanti e sul retro della moto un cartello rettangolare di 30×20 cm con stampigliata una bella “L”, mi convinsi e l’acquistai.
Avevo sempre desiderato guidare una moto, ed ora, finalmente, il mio sogno si era avverato.
I giovani londinesi coltivano il mito della moto: la velocità, il brivido, la follia. A me interessava la moto per viaggiare veloce e anche per “spiritare” un poco scorrazzando per gli stupendi viali di certi quartieri, a nord della città, ma era completamente aliena da me l’idea di mettermi a gareggiare; e gareggiare, a Londra, per i moto drivers è pane quotidiano.
Ci si incontra ad un semaforo o ad un incrocio, si scambia una rapida occhiata alle rispettive cilindrate e se sono uguali o vicine è sicuro che uno dei due motociclisti lancerà la sua sfida con una partenza a razzo, quasi sempre accettata dalla’altro; e se le strade da percorrere sono identiche, chi arriva per ultimo paga le prime due birre ed una nuova amicizia è fatta.
Dalla sella di una moto ti trovi a vedere e a considerare le strade, la città, la gente ed anche il tempo in maniera diversa da prima. Una moto, rispetto all’automobile, ti fa risparmiare un sacco di tempo, perché non conosce ostacoli, né fermate e all’occorrenza salta sul marciapiede e riprende il suo cammino mentre un’automobile, anche la più potente, la più costosa, la meglio accessoriata, non riesce a schiodarsi dalle lunghe file del traffico urbano, perennemente intasato.
Quella sera Martine venne a prendermi al lavoro e dopo un ricco pasto in uno dei tanti ristoranti cinesi della zona, decidemmo di andare al “Grey Hound”, un locale nel centrale quartiere di Hammersmith dove era sempre assicurata, ad un buon prezzo, dell’ottima musica, quando non si registrava il “sold out”, come purtroppo avvenne quella sera.
I buttafuori del locale, sei prestanti uomini in abito scuro, gentilmente, ma fermamente, respingono all’ingresso quanti, come noi, vi si avvicinano privi del biglietto e/o della prenotazione. Decidiamo di aspettare. E’ successo altre volte che, a spettacolo appena iniziato, abbiano fatto entrare qualche persona, dopo che la grande massa dei delusi, rassegnata, se ne era già andata.
Ci parcheggiamo quindi con la moto poco distante; vediamo in lontananza una Honda 350 con una targa che sembra italiana, ma non si scorge bene nel riverbero di luce artificiale, fermarsi di fronte al locale. Ne scendono un aitante guidatore ed una snella figura femminile. Con il casco in mano si avvicinano all’ingresso. Si ripete la stessa nostra scena; i due sono visibilmente delusi; forse attratti dalla luce del lampione, sotto la quale siamo rimasti in attesa, si dirigono verso di noi spingendo a mano la loro moto e la parcheggiano abbastanza vicino da riuscire a leggerne la targa: è di La Spezia. Lui ha i capelli corti e un poco mossi, sui tratti forti di un viso dai lineamenti regolari; lei è un po’ meno alta, seppure slanciata, coi capelli neri e lunghi, il naso un po’ fino, gli occhi grandi e castani, adornati da ciglia che scorgo alla luce del lampione ben curate; spiccano inoltre le sue labbra rossettate e carnose. Noto che lui fuma e lei siede sulla moto. Lui le prende la mano, dopo che si è tolta i guanti.
La scena si ripete per un altro po’ di volte: coppie, singoli, gruppi e gruppetti, sprovvisti del biglietto vengono regolarmente ed inesorabilmente respinti. Pochi si trattengono nei pressi, i più se ne vanno per le loro destinazioni.
Il tizio della moto italiana si avvicina e mi chiede delle cartine; il suo accento mi conferma l’autenticità della targa della sua moto. Gliele porgo rivolgendomi a lui in italiano; mi sorride dolcemente sui denti piccoli e bianchi.
-“ Ci facciamo un joint?”- mi chiede con fare complice. Il ghiaccio è rotto. Si chiama Massimo. Si avvicina anche la sua compagna: Tizi, per Tiziana. Sono entrambi spezzini, di Rebocco l’una e di Manarola l’altro, puntualizzano ridendo.
Il traffico nella strada, alle nostre spalle, è lento: poche auto, qualche autobus. Stiamo a parlare e a fumare; Tizi rispolvera il suo solido francese scolastico con Martine; Massimo ed io parliamo di moto, musica e mare. Improvvisamente, mentre sento il concerto che inizia, vedo comparire dal nulla due tipi molto originali: uno è molto alto e robusto, quasi un gigante, e cammina mezzo metro avanti; l’altro, un po’ meno alto, ma altrettanto robusto e imponente, con indosso un paio di occhiali scuri , lo segue dappresso.
Li vedo solo dal lato che ci offre la nostra posizione: quello sinistro. Si dirigono decisi verso l’ingresso: il loro aspetto è terribile. Indossano grandi scarponi che paiono di ferro, a giudicare dal rumore che provocano sul selciato; i loro jeans sono lisi e sdruciti, con visibili pezze di rattoppo; i giubbotti che portano sono di un colore grigio-verde. Uno di loro, il primo, ha visibile sull’avambraccio una corona dentata in metallo luccicante, che mi fa pensare ad un gladiatore dell’Antica Roma. Tutti e due hanno in mano una lattina di birra. Procedono lentamente, quasi con solennità. Si fermano a guardarsi in giro, sospettosi e guardinghi. Ho un brivido di paura quando volgono lo sguardo verso di noi. Quando mi danno le spalle scorgo sulla schiena dei loro giubbotti un disegno in rilievo raffigurante un enorme topo grigio accovacciato e la scritta ad arco nella parte superiore “Road’s Rats – London”.
Li indico a Massimo che mi sta di fronte e non li ha potuti notare.
-“ Deh, belìn! Chi sono questi?” – esclama di getto.
-“ Sono i terribili Topi di Strada, i cugini inglesi degli Hell’s Angels americani” – gli faccio abbassando istintivamente la voce; e pio aggiungo, sempre sottovoce: “Si raccontano cose terribili su di loro; pensa che perfino la Polizia ne ha terrore.”
Il nodo della mia emozione si scioglie di colpo quando i due, dopo una grassa, indescrivibile risata ed un rutto animalesco che si fonde metallico con il rumore delle lattine lasciate cadere rumorosamente per terra, si avviano definitivamente verso l’ingresso.
La porta è ovviamente chiusa. Uno dei due le tira un calcio così potente che mi immagino che il vetro se ne sia andato in frantumi. Uno dei severi buttafuori fa capolino dietro una pesante tenda che nasconde l’interno dell’atrio di ingresso ai nostri occhi curiosi. Come per incanto, quell’arcigno inserviente che ha respinto per tutta la sera con baldanzosa sicurezza decine di appassionati rock’s fans, diventa un agnellino spaurito e fattosi piccolo, piccolo, aperta la porta, si mette di lato, consentendo il trionfale ma indifferente ingresso nel teatro dei due teppisti.
Non ricordo che gli abbiano mostrato alcun biglietto.
……continua……