di Antonio Sparzani
Di quel filone di letteratura mitteleuropea che irruppe nelle nostre librerie negli anni settanta del secolo scorso, molti sono gli autori noti e variamente letti, da Mann a Musil, da Joseph Roth a Schnitzler, da von Doderer a Canetti. Ma il nome di Hermann Broch (Vienna 1886 – New Haven 1951), malgrado la pubblicazione da parte di Einaudi de i Sonnambuli già nel 1960, non ebbe affatto risonanza, e sostanzialmente rimase nell’ombra degli esperti di germanistica. E sì che Elias Canetti, nel discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura, attribuitogli nel 1981, parlò di Broch come di colui che avrebbe, se fosse stato ancora vivente, meritato più di lui il premio, e a Broch dedicò molte affettuose pagine nel Gioco degli Occhi, terzo volume della sua autobiografia.
Da quando, ormai vari anni fa, qualcuno mi mise sulla traccia di questo autore così fuori dai percorsi letterari più usuali, non ho smesso di leggere i suoi scritti e di ripensare di quando in quando al suo peculiare modo di concepire e affrontare la letteratura. La prima lettura che si offre di lui è la prima opera che scrisse non appena, nel 1927, a 41 anni, smise di fare l’ingegnere tessile, professione cui era stato naturalmente avviato dal padre e dalla sua impresa, e decise di dedicarsi alla scrittura e alla conoscenza del mondo. Die Schlafwandler, appunto, letteralmente i camminatori nel sonno, ovvero i sonnambuli, da tempo esaurita e ripubblicata oggi con grande cura editoriale da Mimesis ad inaugurare la nuova collana di letteratura, diretta da Massimo Rizzante.
Su questo blog ho già pubblicato un intenso e raffinato dialogo d’amore tratto dal primo volume de i Sonnambuli e qui voglio semplicemente segnalare la possibilità di riavere quest’opera in una nuova, e più attenta della precedente einaudiana, edizione con prefazione di Milan Kundera e postfazione di Carlos Fuentes. La traduzione è rimasta quella ottima di Clara Bovero, con solo qualche aggiornamento dovuto al curatore, coadiuvato da Marianne Schneider e da Stefano Zangrando; Rizzante inoltre ha avuto la buona idea di pubblicare in appendice alcune lettere di Broch, degli anni dal 1929 al 1932, tutte relative alla pubblicazione del romanzo; alcune dirette all’editore — Rhein Verlag, di Zurigo –, altre a Frank Thiess, a Daniel Brody e alla signora D. Brody.
I tre volumi che costituiscono il romanzo narrano storie che si svolgono a quindici anni di distanza ognuna dalla precedente: Pasenow o il romanticismo si svolge nel 1888, Esch o l’anarchia nel 1903 e Huguenau o il realismo nel 1918, tre epoche storiche diverse delle quali i protagonisti sono in un qualche modo l’incarnazione.
I Sonnambuli non sono la saga di una famiglia (come pure gli era stato fortemente suggerito, per ragioni di moda letteraria, dall’editore), sulla scia de i Buddenbrook di Thomas Mann o la Saga dei Forsyte di John Galsworthy o ancora l’Affare degli Artamonov di Maxim Gor’kij (pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov), I Sonnambuli sono una storia altamente polifonica, nella quale alcuni pochi personaggi permangono nei diversi volumi ma nei quali soprattutto si riflette continuamente sulla storia e sul mondo, avendo come centro dell’attenzione e dell’analisi quella che Broch chiama consistentemente la disgregazione dei valori; l’agire e la storia di un essere umano è per Broch una incarnazione e uno sviluppo di valori e nel procedere de i Sonnambuli si assiste per l’appunto ad un loro inesorabile continuo logoramento. Huguenau, il cinico protagonista del terzo romanzo, finisce per diventare un volgare delinquente, incarnando un’epoca di disillusione e disincanto che sembra non permettere più di inquadrare la propria vita in un sistema sia pur minimo ma eticamente connotato.
Il terzo volume è un continuo intreccio di riflessioni su quell’epoca di perdita di orizzonte che fu il primissimo dopoguerra e non concede nulla a accattivanti motivi romanzeschi, ma la presa dell’autore sulla realtà non viene meno, così come non viene meno la sua capacità di riflessione complessiva sulla situazione dell’«anima europea». Vi copio qui una delle ultime pagine del terzo volume, che credo mostri ‒ ancorché un po’ forzosamente estratta dal contesto ‒ la misura delle riflessioni brochiane. Non è una lettura agevole e allietante quella delle pagine di Broch, appena sfiorate a tratti dall’ombra di una mesta ironia, ma è una di quelle letture che forniscono nuovo cibo per la nostra intelligenza ad ogni rilettura.
«E l’unità che costituisce l’essenza di ogni teologia e che di necessità sussiste persino quando si tenti, negandolo, di eliminare dal mondo il pensiero, ma che può ben anche sussistere quando il punto di plausibilità scientifica del «tenere per vero» coincida con il punto di plausibilità del «credere» e la doppia verità ridiventi una verità univoca. Perché all’estremità dell’infinita catena di domande che conduce a tale plausibilità troviamo l’atto puro, l’idea di un puro organon del dovere, l’idea della fede razionale e affrancata da Dio, troviamo, in leggi di pietra, la forma vuota di una «religione in sé», e forse persino l’immediatezza razionale di una «mistica in sé», la cui muta religiosità, ascetica e disadorna, soggetta al rigore e soltanto al rigore, indica l’ultima meta di questa rivoluzione veramente protestante: il vuoto sordo di una spietata assolutezza, dove troneggia lo spirito astratto di Dio, non Dio, ma il suo spirito, eppure Dio stesso, che afflitto troneggia nell’angoscia di quel silenzio inviolabile e senza sogni che è il logos puro.
A questo stato dello spirito europeo Huguenau poco partecipava, ma partecipava invece alla precarietà imperante. Perché l’irrazionale che è nell’uomo sente l’irrazionale del mondo, e sebbene la precarietà del mondo sia per così dire una precarietà razionale, spesso persino commerciale, nasce pur sempre dallo scatenarsi della ragione, che in ogni sfera di valori tende all’infinità, e, abolendosi di fronte a questa barriera ultrarazionale, si converte nell’irrazionale, nel non-più-intelligibile. Il denaro e la tecnica non hanno freno, le valute oscillano e, nonostante tutte le spiegazioni che l’uomo ha pronte per l’irrazionale, il finito non può tenere dietro all’infinito e nessun mezzo razionale può ricondurne la mutevole irrazionalità sotto la signoria della ragione. Sembra che l’infinito si sia destato a una vita indipendente e concreta, sorretto e accolto dall’Assoluto che nell’ora tra lo sfacelo e la rinascita, in questa magica ora di morte e di generazione, risplende al più remoto orizzonte. E per quanto Huguenau distogliesse lo sguardo dal. fulgido dischiudersi del cielo, né in genere volesse sapere nulla di simili possibilità, pure sentiva il soffio gelido che, spirando sul mondo, lo irrigidisce in uno spasmo titanico, ma toglie ogni senso alle cose mondane. E quando Huguenau, al mattino, seguiva sul giornale lo svolgersi degli avvenimenti, lo faceva con il disagio di tutti i lettori di giornali, che si gettano avidamente sulle notizie, affamati di fatti, soprattutto di fatti adorni di illustrazioni, tornando ogni giorno a sperare che la massa dei fatti riesca a colmare il vuoto di un mondo e di un’anima entrambi muti.»
(I Sonnambuli, vol. III, Huguenau o il realismo, Mimesis 2010, pp. 681-82)