Pubblicato da krauspenhaarf su gennaio 31, 2012
Lo scrittore milanese nella sua nuova raccolta esplora
la realtà attraverso il dramma umano e la fisicità del dolore.
di Angelo Molica Franco
Se il poetare di Franz Krauspenhaar fosse un colore, sarebbe l’amaranto poiché esso tocca tonalità – cremisi, scarlatto, granata capaci solo di somigliargli. Allo stesso modo, le strofe di “Effekappa” (Editrice Zona, 2011) sono ammantate da un sentimento che non è solo malinconia, dolcezza, dramma, dolore, bellezza: c’è sempre una traccia che sa sfuggire all’interpretazione del lettore. Eludendo ogni retorica, la silloge scommette sullo strumento base della scrittura: la parola. Un innesto di concreto e astratto, di contemporaneo e classico, il tutto cesellato in una metrica che si sloga tra il topico e l’avveniristico. La drammaticità incontenibile delle odi di Krauspenhaar è solo il velo dietro cui si cela la reale ispirazione dell’autore: il senso della carne, inteso come consapevolezza della fisicità del dolore, di un dolore non solo estatico ma anche del corpo; “lecco il vuoto / delle tue scapole fredde” ci dice in “Dolce sera”. Il versificare è verticale e decostruito quando l’emotività prende il sopravvento per edificarsi agilmente, poi, in un verso prosaico,quasi narrativo e orizzontale. Ma non tutte le poesie sanno restituire al lettore la stessa maturità emotiva. In alcune l’autore indugia troppo in echi modernisti. Non avrei inserito, infine, “Poema H24”: un visionario corpus che ha dell’incomprensibile. Una poesia, però, insieme a molte altre salva la collezione; si tratta di “Sono venuto a dirti della mia pazienza”, vivido elogio a Gainsbourg. “Venne il tempo dell’alloro. Nelle salse / del nostro scontento. Nelle tazze dell’oro, / nel disdoro disadorno e carso.”. Lontano dal simbolismo posticcio che spopola, Krauspenhaar porge parole che stillano un realismo terribile e bellissimo.
Pubblicato su Il Corriere Nazionale.