Magazine Cultura
I versi
Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non era più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.
Da: “Gli strumenti umani” 1965
In quel libro poeticamente eccelso che è Gli strumenti umani (1965) di Vittorio Sereni (1913-1983), spicca una poesia, I versi, che io reputo una delle più significative della poesia italiana del ‘900. Si tratta di un componimento che rappresenta, probabilmente, l’optimum per ogni poeta, ovvero un componimento nel quale la scrittura, breve ed essenziale, si sposa a una ricchezza di contenuto sorprendente e a una tensione poetica avvolgente. E il lirismo non nasce dall’aggettivo, dalla metafora ardita, dalla retorica, bensì dalla mitezza del tono, dall’ironia amara dei versi, dalla loro apparente semplicità. Che volere di più da un poeta?
Il tema de I versi non è nuovo: l’idea della innata incompiutezza della scrittura del poeta attraversa la letteratura di tutti i tempi; ma Sereni sceglie un taglio “domestico” per parlarne, ossia s’immagina un uomo che scrive poesie e quasi se ne vergogna, mentre saluta gli amici l’ultima sera dell’anno, amici che invece fanno una vita concreta, faticosa, e sono attenti a non smarrire se stessi nella metropoli industriale. Il poeta, allora, finge in modo onesto, per il bene degli altri, quasi per non tediarli, anche perché lui stesso non sa bene quel che scrive. E perché dovrebbe saperlo?
L’esclamazione centrale sgrammaticata, quell’affermazione timida e, forse, poco sincera, di un pentimento per aver voluto scrivere poesie, segna tuttavia una cesura nel breve componimento. Che “altro” avrebbe voluto “fare” Sereni? Non ce lo dice, per fortuna, perché altrimenti noi lettori rimarremmo stupiti e insoddisfatti. Sì, insoddisfatti di aver capito tutto, perché la vera poesia dovrebbe far capire poco e dovrebbe far “sentire” molto.
Gli ultimi versi del componimento si velano di un tono esistenziale che non lascia però spazio all’accademismo, alla filosofia astratta. Scrivere poesie è un destino già deciso da altri, sembra affermare Sereni. Non si sceglie, né si decide di scrivere, ma ci si fa aggredire dalla necessità di farlo. E, quando si scrive una poesia, quando si porta fuori di sé un contenuto misterioso del nostro magmatico animo, per un istante si ha la sensazione di essere più liberi, meno oppressi da angosce, dubbi, domande. Ma si tratta solo di un attimo, perché ecco di nuovo, all’orizzonte, il destino del poeta che torna ad affacciarsi, a costringerlo a scrivere, a meditare, forse a soffrire. Si passa al peso “seguente” perché non si può fare diversamente, senza capire mai del tutto il motivo che ci spinge a scrivere, né “cosa” si scrive. Come in una teologia negativa, Sereni sembra voler dire che per sapere cosa è “poesia”, bisogna dire ciò che “poesia” non è. Senza dubbio Montale è sullo sfondo, ma Sereni, come avverte il curatore delle note, appare più affine al grande poeta inglese Thomas Stearn Eliot (autore amato peraltro anche da Montale), allorché scrive: “So here I am… tryng to leran to use words, and every attempt/ is a wholly new start, and a different kind of failure".
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