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I vettori strategici della Russia all’ombra della rinnovata rivalità con l’Occidente

Creato il 08 luglio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

Alexander Zemlianichenko-AP

di Oleksiy Bondarenko

La politica del reset delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, inaugurata con l’ascesa alla Casa Bianca di Barack Obama, ha trovato numerose difficoltà nella costituzione di solide basi istituzionali tra le due potenze e non è stata in grado di aumentare il livello di fiducia reciproca tra Mosca e Washington. Il progressivo sgretolamento della buffer zone tra l’Europa Occidentale e la Russia, una costante a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ha avuto l’effetto di irrigidire la postura del Cremlino, riaccendendo i timori di accerchiamento, tipici del periodo sovietico. Se il processo di allargamento dell’Unione Europea verso Est e la politica del Partenariato Orientale hanno reso necessaria una complessa (e macchinosa) risposta politico-economica, l’espansione della NATO in prossimità dei confini della Federazione Russa e il programma missilistico dell’Alleanza Atlantica hanno avuto l’effetto di alterare l’equilibrio strategico regionale, con serie ripercussioni sulle capacità deterrenti nelle mani del Cremlino e sul traballante engagement post Sovietico.

Ucraina, una crisi differente dalle altre

La crisi in Ucraina, scoppiata alla fine di novembre scorso, rappresenta un nuovo capitolo della rivalità geopolitica all’interno dello spazio post-sovietico, ma a differenza delle precedenti frizioni con Washington e Bruxelles, gli interessi russi nell’ultimo baluardo che la separano fisicamente dall’Europa sono, per numerosi motivi, considerati vitali dall’establishment politico e militare del Cremlino.

In primo luogo, a differenza delle altre repubbliche ex sovietiche, l’Ucraina è parte integrante della storia russa e della sua eredità culturale e religiosa. La civiltà russa, così importante nella ricostruzione e nel consolidamento della Federazione Russa post-sovietica, è nata proprio a Kiev che rappresenta idealmente la culla del “mondo russo”. L’Ucraina, insieme al Kazakistan, ha inoltre ereditato la più grande minoranza di popolazione etnicamente russa, principalmente concentrata in Crimea e lungo il confine orientale tra i due Stati.

Oltre al suo valore storico e culturale la “terra di confine” (u krajina), con i suoi 46 milioni di abitanti, rappresenta anche il principale partner commerciale all’interno della Comunità degli Stati Indipendenti, oltre che un fondamentale collegamento fisico e politico tra Russia e Europa. L’eredità infrastrutturale ha reso Kiev un attore rilevante nella strategia energetica che Mosca ha sviluppato a partire dall’inizio del nuovo Millennio. Buona parte dell’attuale approvvigionamento energetico dell’Europa (circa il 16%), soprattutto dei suoi membri orientali, dipende dal gas che transita per i gasdotti ucraini, anche se con la costruzione del gasdotto North Stream la quota del gas russo che attraversa l’Ucraina si è abbassata dal 80% al 60%. L’influenza che Mosca può esercitare sui partner europei e la sua strategia di crescita economica interna, così fortemente legata al mercato degli idrocarburi, dipende dalla stabilità e dall’indirizzo politico del vicino.

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Dipendenza europea dal gas russo – Fonte: Oxford Analytica/Eurogas

Ma l’importanza dell’Ucraina si basa soprattutto sulla sua posizione strategica da un punto di vista politico-militare. L’accesso al Mar Nero e la presenza della flotta russa a Sebastopoli hanno un inestimabile valore deterrente nell’ottica della rinnovata dottrina militare della Federazione Russa e del processo di modernizzazione dell’esercito intrapreso nel 2010. Il recente sviluppo del sistema missilistico sotto l’ombrello NATO nell’Europa Orientale e il possibile, se non probabile, allargamento dell’Alleanza Atlantica verso Kiev dopo la caduta di Yanukovich e l’ascesa al potere dei vecchi sostenitori (Tymoshenko, Yatseniuk e Poroshenko su tutti) di un’alleanza militare con l’Occidente, rappresentano, nell’ottica del Cremlino, la principale minaccia strategica alla propria sicurezza nazionale. In effetti, il Summit di Bucarest del 2008, che aveva preceduto la politica di apparente neutralità inaugurata da Yanukovich, pur respingendo l’immediato accesso dell’Ucraina al Membership Action Plan (a causa dell’opposizione tedesca e francese), aveva altresì lasciato le porte aperte a Kiev attraverso un ambiguo comunicato finale che sottolineava come Georgia e Ucraina sarebbero diventati membri NATO.

In ultimo le relazioni con Kiev hanno anche un valore politico-simbolico per il Cremlino. La rinascita della Russia come grande potenza, avvenuta durante la presidenza di Vladimir Putin, ha un ruolo molto importante nella ricostruzione dell’identità nazionale del Paese [1]. Poco competitiva da un punto di vista economico e demografico, lo status di grande potenza si basa principalmente su tre elementi: la sua potenza militare e specialmente nucleare, il seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e il suo primato politico all’interno dello spazio post-sovietico. Lo sconvolgimento di uno di questi tre pilastri mette in discussione, almeno secondo il Cremlino, la posizione della Federazione Russa sul palcoscenico internazionale e rappresenta un precedente pericoloso anche per i futuri sviluppi dell’opposizione interna al Paese, minando di conseguenza la stabilità stessa della Federazione.

Proprio per tutti questi motivi la crisi ucraina, con il sostegno delle cancellerie occidentali ad un cambio di regime, rappresenta una svolta radicale nelle relazioni tra Russia e l’Occidente le cui conseguenze non si andranno ad esaurire nel breve periodo.

Via dall’Europa, riscoprendo il vettore asiatico

Durante la crisi ucraina, Washington e Bruxelles non hanno solo irrobustito la propria postura militare nella regione (esercitazione NATO Saber Strike-2014) e sostenuto piuttosto attivamente il nuovo governo di Kiev, ma hanno anche adottato lo strumento delle sanzioni economiche nei confronti del Cremlino. La natura asimmetrica delle sanzioni rappresenta, in linea teorica, uno strumento di pressione nei confronti del rivale che dovrebbe funzionare senza serie ripercussioni sugli interessi di chi lo adotta. Anche se l’obiettivo principale della Casa Bianca, cioè quello di evitare l’annessione della Crimea, non è stato raggiunto, le sanzioni hanno apparentemente permesso di evitare un più massiccio coinvolgimento da parte di Mosca in Ucraina e limitato le sue capacità di rispondere in maniera adeguata alla recessione economica interna.

Ma le sanzioni imposte dall’Occidente hanno anche avuto alcuni evidenti effetti controproducenti. In primo luogo la lunga discussione e le difficoltà che Washington ha trovato nel convincere i suoi alleati hanno dimostrato che anche di fronte ad uno scenario come quello che si sta sviluppando in Ucraina, Stati Uniti e Unione Europea non rappresentano un fronte unico e compatto. Anche se Bruxelles ha appoggiato la politica di Obama, i legami commerciali ed economici con la Federazione Russa hanno un peso importante sulla politica estera dei singoli Stati dell’Unione. La Francia sembra restia ad annullare la fornitura delle navi da guerra alla flotta russa, mentre i dubbi sugli effetti delle sanzioni espressi dal diplomatico tedesco, Wolfgang Ischinger, evidenziano la difficile situazione della Germania, uno dei principali partner europei di Mosca.

Le principali conseguenze delle sanzioni si riscontrano, però, in termini geopolitici nel futuro sviluppo dei vettori strategici di Mosca. Il progressivo allontanamento dall’Europa (Pivot from Europe) sembra cominciato, sia da un punto di vista politico-economico-militare, sia da quello ideologico.

Pivot to China e la rinnovata partnership sino-russa

Il recente accordo tra Gazprom e la China National Petroleum Corporation (CNPC), siglato durante la visita di Vladimir Putin a Shanghai lo scorso maggio, è la dimostrazione della forte convergenza d’interessi tra Mosca e Pechino nell’ambito di quello che Bobo Lo definisce come “asse di convenienza” sino-russo. L’accordo, che implica la fornitura di 38 miliardi di metri cubi annui del  gas russo per un periodo pari a 30 anni a partire dal 2018, ha un valore economico di 400 miliardi di dollari ed evidenzia il crescente coinvolgimento di Mosca nella regione asiatica. Infatti, sebbene molti dettagli rimangano segreti, appare molto probabile che, oltre ad un’importante concessione sui prezzi del gas (legati a quelli del petrolio), il Cremlino abbia fatto cadere il veto sulla partecipazione delle compagnie cinesi allo sviluppo del settore energetico russo. Questo si dovrebbe tramutare in 50 miliardi di investimenti nelle infrastrutture in Siberia e nella depressa regione Orientale del Paese, oltre alla costruzione del gasdotto che nel 2018 dovrà collegare i due vicini.

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Tracciato del Power of Siberia pipeline – Source: Gazprom/Russia Today

Anche se Pechino non rappresenta ancora una vera e propria alternativa al mercato energetico europeo, che acquista dalla Russia ben 161,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno, la costruzione del nuovo Power of Siberia pipeline (è questo il nome dato al progetto) che collegherà i giacimenti siberiani al primo consumatore energetico del mondo, potrebbe implicare numerosi nuovi accordi. Proprio la mancanza infrastrutturale, oltre che alcune frizioni politiche, ha limitato la cooperazione energetica sino-russa durante l’ultimo ventennio.  Già nel 2010, dopo un travaglio decennale, era entrato in funzione l’ESPO (Eastern Siberian Pacific Ocean Pipeline) che da Skovorodino si allacciava alla rete cinese permettendo di esportare il petrolio russo verso la città di Daquin. Negli ultimi tre anni la vendita del petrolio verso la Cina è cresciuta costantemente, seguendo l’andamento generale del commercio bilaterale tra i due vicini, e nel 2013 è stata creata la prima joint venture tra RosNeft (51%) e CNPC (49%) per lo sviluppo dei giacimenti e dei sistemi di trasporto petrolifero in Siberia e per la realizzazione di una nuova raffineria a Tianjin, in Cina, capace di raffinare buona parte del greggio russo. L’ESPO e il futuro Power of Siberia quindi, oltre ad aggiungere carte al mazzo di Putin nei suoi rapporti energetici vis-à-vis con l’Europa e promuovere la tanto attesa strategia della diversificazione [2], hanno anche serie conseguenze sullo sviluppo delle regioni Orientali della Federazione Russa, una delle principali sfide per il futuro della Federazione Russa.

Oltre alle relazioni economiche però, la crisi ucraina e la definitiva presa di posizione del Cremlino contro l’unipolarità decisionale del blocco occidentale, ha fatto registrare un’importante convergenza tra Mosca e Pechino dal punto di vista politico. Pur assumendo, per ovvi motivi interni, una posizione ufficialmente neutrale, la Cina ha potuto trarre importanti conclusioni dalla nuova fase di confronto in Europa dell’Est. Innanzi tutto dal punto di vista del PCC, l’azione di Putin in Crimea, oltre ad essere più facilmente giustificabile rispetto al coinvolgimento americano durante le proteste a Kiev, rappresenta anche un importante precedente per le varie opzioni che Pechino sta da tempo valutando nei confronti di Taiwan. L’opposizione nei confronti dell’espansione della NATO e di quello che Pechino e Mosca percepiscono come ingerenze da parte di Washington nelle loro sfere d’influenza è un valido motivo per rafforzare la cooperazione politica tra i due, sia tramite una partnership su singole questioni strategiche, sia nel sostegno reciproco in seno a istituzioni come l’ONU. Nonostante la situazione in Ucraina e la crescente instabilità in Medio Oriente abbiano distolto l’attenzione americana dal quadrante asiatico, Cina e Russia potrebbero sviluppare nuovi legami, su nuove basi, anche nella cooperazione tecnologico-militare, volta a bilanciare il dispiegamento dei sistemi di intercettazione missilistica americana in Alaska e nell’Europa Orientale. Anche se la Cina sembra piuttosto restia a rimanere un semplice acquirente dell’equipaggiamento militare russo, la crescente tensione nel quadrante europeo potrebbe spingere Mosca, come già successo nel settore energetico, ad avviare una nuova fase di collaborazione con le compagnie cinesi.

I rinnovati rapporti sino-russi si sono sostanziati negli ultimi anni anche attraverso importanti format istituzionali che hanno lentamente assunto crescente importanza a livello regionale e internazionale. Shanghai Cooperation Organization (SCO) e BRICS sono due strumenti condivisi che hanno permesso di smussare alcune divergenze e di promuovere gli interessi globali dei suoi membri.  Proprio al nascente BRICS Development Bank e alla progressiva sostituzione del dollaro con lo yuan, soprattutto nei suoi rapporti economici con la Cina, si potrebbe affidare Mosca nella costituzione del nuovo sistema di pagamento elettronico alternativo a Visa e Mastercard che, alla luce dell’annessione della Crimea, si sono dimostrati strumenti di pressione nella mani di Washington. Nella sfera politico-militare invece ci sono segnali di una maggiore cooperazione tra SCO e la Collective Security Treaty Organization (CSTO) guidata da Mosca, che, pur non rappresentando una vera e propria alternativa alla NATO a livello internazionale, sono strumenti volti a promuovere una collaborazione regionale e a mitigare le differenze tra Cina e Russia dal punto di vista politico e militare.

Altri attori in Asia e nel Pacifico

Nonostante il consolidamento dei rapporti, il Cremlino rimane un partner minoritario al cospetto della potenza economica cinese. Sebbene la paura del vicino sia mitigata sia da basi istituzionali sia da un certo livello di complementarietà economica, la Russia sembra motivata a consolidare i rapporti con altri attori regionali per diminuire lo squilibrio di potere con Pechino. I recenti cambiamenti strategici nella regione e la crescente assertività della dirigenza cinese nell’esercitare un ruolo dominante nel Mar Cinese Meridionale, hanno provocato, inoltre, un riequilibrio politico-militare da parte delle altre potenze dell’Asia-Pacifico. Mentre Washington fatica ad affermare la propria politica regionale, la Russia sta diventando un attore sempre più importante per Corea del Sud, India, Vietnam e in parte per il Giappone.

Nonostante i difficili rapporti con Tokyo, la neutralità della Russia sulla disputa sino-giapponese sulle isole Diaoyu/Senkaku, la visita di Shinzo Abe a Mosca nel 2013 e il viaggio di Putin in Giappone, programmato per settembre prossimo, rappresentano i primi segnali di una debole distensione. Il summit dei Paesi APEC svoltosi a Vladivostok nel 2012, inoltre, ha permesso di creare le basi per un incremento della cooperazione nella sicurezza marittima, campo molto importante per entrambi. Dal punto di vista economico il Giappone importa il 10% del proprio gas naturale liquefatto (LGN) dalla Russia e ha recentemente intrapreso alcuni importanti investimenti nella penisola di Sakhalin (progetto Sakhalin-2). Inoltre, in seguito al disastro di Fukushima, Tokyo sta cercando di trovare nuove fonti di approvvigionamento energetico e il gas russo, considerando la prossimità geografica, potrebbe essere una valida soluzione. Un primo progetto di un gasdotto tra l’isola di Sakhalin e la prefettura di Ibaraki, in Giappone, sta prendendo forma e potrebbe essere discusso durante la futura visita di Putin. Pur non potendo abbandonare il proprio allineamento con Washington, il governo di Shinzo Abe è alla ricerca di nuovi strumenti per consolidare la propria posizione regionale vis-à-vis con Pechino. Una convergenza con Mosca potrebbe essere una strada da percorrere.

Per quanto riguarda la penisola coreana, rapporti sempre più solidi legano Mosca a Seul. La Corea del Sud è il terzo partner economico della Russia nella regione asiatica (dopo Cina e Giappone) e negli ultimi anni la cooperazione tra i due sta interessando diversi settori. L’agenzia spaziale russa ha dato un importante contributo al lancio del primo satellite sudcoreano avvenuto con successo nel gennaio del 2013 in risposta al test missilistico di Pyongyang. Un nuovo processo di liberalizzazione dei visti è stato avviato a novembre scorso, mentre negli ultimi anni gli investimenti coreani nelle regioni orientali della Federazione Russa sono costantemente aumentati [3]. La Korea Trade-Investment Promotion Agency, ad esempio, ha annunciato nuovi piani per la partecipazione delle compagnie coreana nello sviluppo della regione di Irkutsk. Nella questione nordcoreana, la presenza russa all’interno dei Six Party Talks, seppur con un ruolo piuttosto marginale, ha permesso di instaurare un rapporto di fiducia con Seul e di trovare una certa convergenza di opinioni. In linea teorica il Cremlino non sembra contrario alla riunificazione della penisola, fattore che permetterebbe di creare un collegamento fisico con il partner sudcoreano. Proprio lo scorso aprile Mosca ha cancellato il 90% del debito di Pyongyang, sperando di ricevere in cambio la cooperazione di Kim Jong-un sul progetto della costruzione di un gasdotto e di un tratto ferroviario che colleghino  la Siberia a Seul.

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Fonte: Oxford Analytica

La pipeline diplomacy rappresenta un ottimo collante anche per le relazioni con l’India. Oltre a numerose convergenze politiche con New Delhi sulla situazione strategica regionale, con particolare riferimento all’Afghanistan, Mosca potrebbe espandere anche i suoi legami energetici. Negli ultimi anni si sono, infatti, intensificati i rapporti tra la RosNeft e Oil and Natural Gas Corp (ONGC) per lo sviluppo di numerosi progetti offshore e onshore nell’Estremo Oriente della Federazione Russa. I progetti più importanti riguardano la costruzione d’infrastrutture che possano collegare energeticamente i due giganti. E’ in discussione un oleodotto tra la regione di Altai e l’India che dovrebbe passare attraverso lo Xinjiang, mentre in seguito al recente accordo tra Mosca e Pechino, sembra che ONGC abbia proposto anche un prolungamento del gasdotto Power of Siberia fino al territorio indiano. L’India e la Russia possono sfruttare anche il formato SCO per migliorare il livello di cooperazione in numerosi settori. Proprio nell’ultimo periodo New Delhi ha fatto passi significativi verso la piena membership all’interno dell’organizzazione, nonostante lo scetticismo iniziale di Pechino.

In ultimo, un altro attore molto importante per la strategia asiatica del Cremlino è il Vietnam, che con la sua posizione geografica rappresenta il ponte di accesso ideale per irrobustire la presenza russa nel sud-est asiatico. Sotto quest’aspetto non è da sottovalutare nemmeno lo sviluppo della nuova rotta marittima lungo le coste settentrionali della Russia che potrebbe dimezzare i tempi di navigazione tra l’Estremo Oriente ed i principali porti europei, bypassando lo stretto di Malacca e aumentando l’importanza regionale della Federazione Russa e il suo leverage nei confronti di Cina e Giappone.

Unione Eurasiatica come ponte e alternativa: tra Oriente e Occidente

Il futuro del vettore asiatico dipende anche da un altro grande progetto di Putin. Gli accordi di Astana del 29 maggio scorso segnano il percorso di transizione dall’Unione Doganale tra Russia, Kazakistan e Bielorussia verso la creazione di un nuovo soggetto politico che unirà 170 milioni di abitanti sotto il nome di Unione Eurasiatica. L’idea di una grande unione che promuova la cooperazione e l’integrazione di una parte dello spazio post-sovietico è stata sostenuta dal presidente kazako Nursultan Nazarbayev a partire dalla metà degli anni Novanta. Il vero processo integrativo prese piede però solo nel decennio successivo su iniziativa del Cremlino. Quello dell’Unione Doganale e dell’Unione Eurasiatica che nascerà il 1° gennaio 2015 è, in effetti, un processo integrativo “russo centrico” che nel corso degli anni ha subito numerose battute d’arresto [4]. Anche se Kirghizistan e Armenia sembrano in procinto di unirsi alle altre tre repubbliche, attualmente appare molto improbabile vedere Kiev seduta allo stesso tavolo di Mosca, Astana e Minsk. Se da una parte il quasi definitivo addio dell’Ucraina ad ogni forma di associazione nello spazio post-sovietico (Kiev ha infatti annunciato l’abbandono anche del format della Comunità degli Stati Indipendenti) rappresenti un duro colpo per l’Unione Eurasiatica, soprattutto nei suoi futuri rapporti con Bruxelles, dall’altra, l’unione promossa da Mosca potrebbe assumere un nuovo carattere e volgere il suo sguardo verso Oriente. Questo nuovo tipo di associazione economico-politica rappresenta, infatti, uno strumento importante nei confronti dei partner asiatici, soprattutto Pechino, permettendo al Cremlino di aumentare il proprio potere negoziale e limitare in maniera istituzionale la penetrazione cinese in Asia Centrale.

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Fonte: Business Insider

Sotto il profilo economico la creazione dell’Unione Eurasiatica è la risposta della Russia alla globalizzazione ed alla formazioni di grandi blocchi come UE, NAFTA o Mercosur. In questa prospettiva il principale obiettivo è la formazione di uno spazio unico e integrato che possa fungere da collegamento tra il mercato europeo e quello asiatico. Essere un partner per l’Unione Europea e allo stesso tempo un’alternativa al modello del capitalismo occidentale per i Paesi emergenti. Sebbene il sogno di un “mercato unico da Lisbona a Vladivostok” non sia completamente tramontato, l’Unione Eurasiatica immaginata da Putin dovrebbe essere, soprattutto in un periodo conflittuale come quello attuale, uno strumento istituzionale volto a difendere i propri interessi economici, consolidare il proprio ruolo a livello internazionale e sfruttare l’emergere di nuovi poli di potere economico e finanziario come Cina e India.

Sotto l’aspetto politico il significato intrinseco dell’idea eurasiatica è quello di rappresentare una valida alternativa all’integrazione socio-politica e culturale occidentale. L’Eurasia, infatti, come afferma Jeffrey Mankoff, «non è solo un concetto geografico, ma anche un gruppo politico ed ideologico». Secondo alcuni analisti il progetto promosso da Putin si basa principalmente sulla convinzione che la Russia non sia stata e non sarà mai accettata come membro paritario all’interno della comunità occidentale. Proprio per questo, Dmitri Trenin evidenzia come la Federazione Russa abbia dovuto «forgiare nuovamente la propria identità internazionale» sia come «centro di potere indipendente» sia come «leader di un gruppo» di Stati, uniti tra loro da una rete di legami economici, politici e militari e rafforzato da un eredità storica comune e da una “civiltà condivisa”.

Questo tipo di unione politica presenta inevitabilmente numerose criticità e problemi, primo tra i quali la paura di Astana e Minsk di dover rinunciare ad una certa quota della propria sovranità in favore delle ambizioni geopolitiche del Cremlino. Infatti, la preponderanza di Mosca all’interno della struttura associativa è evidente. L’85% del PIL totale dell’Unione è composto dalla Federazione Russa, cosi come quasi l’80% della sua popolazione. Proprio per questo sia Astana sia Minsk hanno cercato di rallentare, senza molto successo, l’inevitabile processo di integrazione politica.

Trovare un equilibrio tra integrazione e indipendenza sarà la prima difficile sfida della nascente unione politico economica, ma a differenza dei precedenti tentativi di coordinamento all’interno dello spazio post-sovietico come la fallimentare Comunità degli Stati Indipendenti, l’ambiente istituzionale che si è andato a creare negli ultimi anni a livello regionale potrebbe facilitare questo difficile compito. Il coordinamento tra Unione Eurasiatica e la Collective Security Treaty Organization e la SCO rappresenta uno dei possibili strumenti per limitare la tensione tra Russia, Kazakistan e Bielorussia, nonché un esempio di istituzioni che, pur presentando uno squilibrio di potere in favore di alcuni attori (Russia nel caso del CSTO e Cina per quanto riguarda la SCO) sono state in grado di favorire gli interessi anche dei soggetti più deboli. Inoltre, nonostante la politica multivettoriale del Kazakistan e delle altre repubbliche centroasiatiche, la Russia rappresenta ancora per la regione un punto di riferimento e un provider per la sicurezza e la stabilità. Gli Stati Uniti, oltre al settore energetico, hanno sempre meno interessi in Asia Centrale, soprattutto con il progressivo ritiro dall’Afghanistan (anche se i futuri sviluppi in Iraq potrebbero modificare questa situazione), mentre la Cina, pur rappresentando un grande partner economico, non gode dei legami consolidati nel tempo di cui può vantarsi Mosca. Appare molto probabile, quindi, che la regione centroasiatica sarà il centro dei futuri sviluppi della neonata Unione, con Tagikistan e Kirghizistan pronti ad unirsi a Russia, Bielorussia e Kazakistan.

Considerando il momento di crisi quindi, pur non potendo competere con le ben consolidate e condivise istituzioni occidentali, l’Unione Euroasiatica rappresenta comunque un importante strumento per aumentare il potere negoziale di Mosca nei confronti dell’UE e in parte anche di Washington, rendendo i loro rapporti più paritetici.

Futuro incerto

I futuri sviluppi della crisi ucraina avranno importanti ripercussioni sulla politica eurasiatica del Cremlino. Nonostante il fatto che con la firma degli Accordi di Associazione l’Ucraina possa apparire sempre più lontana da Mosca, difficilmente riuscirà a recidere completamente il cordone ombelicale che la lega tuttora al vicino. In una sempre più accesa rivalità tra Oriente e Occidente, non solo sotto l’aspetto politico-economico, ma anche culturale, storico o addirittura “civilizzazionale”, difficilmente un Paese come l’Ucraina, con tutte le sue contraddizioni interne, potrà rinunciare al dialogo e alla cooperazione con Mosca e con l’Unione Eurasiatica.

Anche se con il ri-orientamento dei vettori strategici l’Europa non sarà più nei prossimi anni l’unico focus della politica estera del Cremlino, un’Ucraina “fuori dai blocchi” (se non alleata) sarà una delle priorità per l’apparato politico-militare della Federazione Russa. In questo quadro, la soluzione meno traumatica per Kiev potrebbe davvero essere quella di rappresentare un ponte economico, politico e culturale tra Est e Ovest, tra Unione Europea e Unione Eurasiatica.

La Russia dal canto suo ha davanti un’ardua sfida. La validità e gli effetti della rinnovata enfasi sul suo vettore asiatico dovranno fare i conti con il suo “irrigidimento” interno e con la strategia di sviluppo delle regioni dell’Estremo Oriente. Il Pivot to Asia è indissolubilmente legato a investimenti e infrastrutture nella parte più depressa della Federazione Russa.

* Oleksiy Bondarenko è Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università degli Studi di Bologna (sede di Forlì)

[1] Russia At The Turn Of The Millennium, Vladimir Putin, 30 December 1999 (http://pages.uoregon.edu/kimball/Putin.htm)

[2] Министерства промышленности и торговли Российской Федерации – “Энергетическая стратегия России на период до 2020 года” (Ministero dell’Industria e del Commercio della Federazione Russa – Strategia Energetica russa fino al 2020), 28 agosto 2003

[3] Kuchins, A.C. “Russia and the Cis in 2013: Russia’s Pivot to Asia.” Asian Survey. 54.1 (2014): 129-137

[4] J. Mankoff “Eurasian Integration: The Next Stage”, Central Asia Policy Brief, N.13, December 2013

Photo CreditsAlexander Zemlianichenko/AP

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