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Ich Liebe Dich.

Creato il 23 marzo 2015 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Pioggia. Continua a piovere verso Sanremo, a tratti le poche macchine sull’Autostrada dei Fiori sollevano un’onda dall’asfalto e poi corrono via. Tutta diritta o quasi, fino alla Riviera.
A Milano sembrava di stare in Belgio: una ordinaria mattina nuvolosa e tesa. Facce contratte, pochissimi sorrisi di rito e una pioggerellina continua, di quelle che dà fastidio alle ossa. Invisibile e costante. E vento freddo. Tanto.
Poche voci, pochi suoni riescono a rompere i pensieri che sono tutti tesi là, verso quei duecentonovanta chilometri da percorrere tutti in un giorno, tutti in bicicletta. La Milano Sanremo, un sogno senza pietà, dove devi avere le gambe alla fine e non è una cosa troppo semplice. La gente mormora i suoi favoriti. C’è Cancellara, c’è Sagan. C’è Degenkolb. E’ strano: in lui alcuni ci credono senza remore, altri poco, quasi niente. Vie di mezzo non sembra ci siano. Quando l’ho visto vincere al Dubai Tour ho pensato che con quella cattiveria, con quella devozione al sacrificio di resistere nonostante tutto si sarebbe preso la Sanremo. Questa luce bianca rende i suoi occhi grigi ancor più trasparenti, quasi liquidi per il silenzio che li attraversa.
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E tanti hanno quell’espressione lì, sembra quasi persa nel nulla, invece è solo concentrazione. Qualcuno la afferra come può, alla spicciolata, si china sulla bicicletta e chiude gli occhi, per un attimo tutto svanisce, forse persino quel freddo che sembra annunciare una giornata ancor più dura di come se l’erano immaginata.
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Dopo mezzogiorno smette, dicevano. Invece continua a piovere, persino su questa strada alla quale sono affezionata perché mi sembra sempre che porti verso il sole. Il tempo cambia in fretta e dopo il Turchino c’è sempre un po’ di azzurro. Oggi no. Il mare si vede appena, è grigio come il cielo. Ancora chilometri da fare, per me, per loro. Ragazzi lucidi di pioggia, sporchi del fango che vien su dalla strada, dalla terra che attraversano. A Sanremo qualcosa si calma, non piove più anche se dal mare sale un vento che scompiglia i capelli e fa spumeggiare le onde sugli scogli. Bianco e poi verde, azzurro. Blu là in fondo, sull’orizzonte che si sta schiarendo. Forse uscirà il sole. Tra i vicoli si sente la telecronaca, viene dall’arrivo, viene dagli altoparlanti, viene dai bar. Questo è uno dei pochi posti al mondo dove la corsa si sente ovunque.
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Arriva un sole tiepido che fa profumare i fiori di un banchetto per la strada e il mare è azzurro d’improvviso mentre continua a spumeggiare contro la costa. Le transenne cominciano a riempirsi di gente, mancano venti chilometri, anche meno e i massaggiatori, i giornalisti sono incollati al piccolo schermo muto che trasmette la corsa. Io vedo di sbieco le sagome allungate di chi c’è in fuga: Daniel Oss e Geraint Thomas. E’ il Poggio, cuore decisivo della corsa, nome piccolo, poetico, che a qualcuno, negli anni, ha portato molta fortuna. Vanno a tutta e so che forse Daniel ci crede perché quello è il posto giusto, il tratto di strada dove stare davanti è esattamente la cosa che devi fare. Invece Geraint lo lascia a metà della salita, se ne va da solo dopo che era stato alla sua ruota senza mai dargli un cambio. Dietro di me c’è un massaggiatore della Etixx-Quick Step che parla con Bramati al telefono. Gli fa la telecronaca ed è talmente bravo che quelli attorno lo ascoltano tutti. Cav è lì nel gruppetto di Nibali. Kwiato è lì, anche Stybi. Oss ripreso, tira Paolini. Parte Van Avermaet. Riprende Thomas. Caduta. C’è anche Kwiato. E Stybi.

Un tornante, la discesa dal Poggio, tre chilometri scarsi al traguardo. Insieme a loro cadono anche Gilbert e Ciolek. Per loro è finita. Gerald si toglie il casco e d’impeto lo butta a terra, toglie gli occhiali, strappa di mano la bicicletta al meccanico, la trascina fino all’ammiraglia con una ruota sola. E’ il ciclismo. Così bello, così crudele.

Due chilometri. Il rumore dell’elicottero, lo speaker che parla più forte e la macchina di inizio corsa e le moto. Ai duecento metri c’è il solito istante. Non si fa niente altro che guardare. I microfoni sospesi, come l’aria tutta attorno. Spunta Sagan e tutti corrono verso il fondo: è arrabbiato, gli è sfuggito persino il podio. Davanti a lui Matthews e poi Kristoff e poi Degenkolb. DEGE. Gli sono tutti attorno, lo soffocano di microfoni e lui ha lo sguardo svuotato da una volata sofferta, le rughe profonde segnate dallo sforzo e dall’incredulità. Ha vinto la Milano Sanremo.
Un signore magro coi capelli bianchi mi chiede chi ha vinto, se è un italiano. Degenkolb, gli rispondo, è tedesco. Ah, dice, bravo lo stesso. E’ il ciclismo, così vero, così generoso. Con tutti. Anche quelli che arrivano dopo. Gli altri.

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Gilbert con la manica della divisa strappata e la pelle e il sangue della strisciata contro l’asfalto. Daniel col volto lucido e gli occhi arrossati dalla fatica dove l’azzurro si vede ancor di più. Paolini con le guance scavate dalla fatica delle trenate. Gerald impassibile, con la sua bici che ora ha due ruote ma non ha placato la sua delusione cocente. Via ai pullman perché domani è già un altro giorno e la sera dopo la Sanremo serve o per festeggiare o per riposare senza nessun altro pensiero. Pozze di pioggia recente in cui si riflette il cielo, le sagome dei pullman, i meccanici che lavano le bici. E sul podio c’è Dege che alza le braccia, le rughe della fatica sono andate via tutte, le ha mandate via il sorriso, la strana consapevolezza di avercela fatta. Aggrappati alle transenne ci sono anche i suoi tifosi del Guilty 76 di Francoforte. Son venuti qui dalla Germania perché forse sapevano già tutto. Sapevano che stava bene, che avrebbe riscattato la caduta dell’anno scorso, che semplicemente Dege voleva quella corsa, l’aveva promesso a sé stesso. I trionfi sono così difficili da raccontare. La felicità è una cosa che va goduta senza troppe parole. E nel silenzio di quel frastuono sotto il podio, lui si prende la statuetta, la guarda e la bacia con gli occhi chiusi. Si toglie il cappellino per l’inno. E si commuove, ha gli occhi lucidi.
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Sa che lì in mezzo ci sono anche i suoi amici, i suoi ragazzi. Sono lì per lui e hanno voglia di abbracciarlo, di dirgli che quei chilometri li rifarebbero anche cento altre volte pur di restare ancora un istante così, a guardarlo mentre si asciuga gli occhi con una mano e fa vedere a tutto il mondo che si piange di fatica, si piange di felicità. Ich Liebe Dich. Che il ciclismo è amore senza sconti. Nessuna tempesta, nessuna caduta, nessuna delusione può scalfirlo. Ich Liebe Dich. So così poche parole in tedesco ma, nonostante tutti dicano che sia una lingua dura, senza dolcezze, io credo che non esista un Ti amo detto meglio di questo. Tre parole che quando le pronunci sono tutte attaccate. Qui lo siamo tutti: sotto il podio, alle transenne. Tutti spalla spalla. Innamorati per sempre.

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Prima di scendere dal podio, Kristoff abbraccia il vincitore. Lo fa come un amico, gli tiene una mano sulla nuca, affettuosamente. Il secondo che abbraccia il primo. Poi è la festa. I pullman tornano a casa, alcuni si fermano in albergo ma davanti a quello della Giant Alpecin ci sono tutti quelli che aspettano il vincitore.
hug

Io devo tornare verso Milano, anche se vorrei stare lì fino alla fine, aspettare che tutto sia veramente finito. Respirare ancora quell’aria per la quale ho un amore folle. Ich Liebe Dich. Lo dico sussurrato, come se lo dicono quelli che si vogliono bene davvero, mentre fuori scorre ancora il mare che si prepara alla sera. Tre parole nella tenera malinconia delle luci che si accendono nelle valli sotto ai viadotti dell’autostrada e delle ammiraglie delle squadre che sorpassano e corrono via veloci verso chissà dove.
Credo in questo amore qua. Che forse non si dice mai abbastanza ma si sente fino in fondo. Ogni volta.



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