C’è un brano interessante (uno dei tanti), nel libro “Sola a presidiare la fortezza”. Flannery O’Connor scrive (una lettera: banale dirlo ma tra di noi ci sono giovani che non sanno nulla di francobolli e telegrammi!) a un tale di nome John Selby. Un editor o editore. E gli dice:
Insomma, sono aperta alle critiche ma solo nell’ambito delle cose che cerco di fare; e non c’è verso di convincermi a fare diversamente.
Quando in passato ho scritto che lo scrittore dovrebbe avere la testa sul collo, e una testa piena di pensieri e idee, parlavo (ma forse non ne ero conscio) anche di questo. Il rischio altrimenti è di finire con il seguire consigli di questo o di quello, fino a perdere completamente la direzione di marcia.
Però ogni affermazione rischia di portarci fuori strada. Quando Flannery O’Connor scriveva quel passo della lettera, aveva già ricevuto incoraggiamenti e alcuni racconti erano stati pubblicati su alcune riviste. A quei tempi, avere un racconto su una rivista significava qualcosa. Ma questo non è il punto.
Mi pare che qui ci sia in ballo qualcosa di più di uno scambio di opinioni, e riguarda chiarezza di intenti di uno scrittore.
Da quello che scriveva la O’Connor, la critica non era solo su struttura, storia e via discorrendo. Si trattava probabilmente di ritoccare certi eccessi della sua scrittura, quel celeberrimo “grottesco” che poi diventerà il suo marchio di fabbrica. Anche lei avrà in seguito il suo editor, qui però possiamo scorgere all’opera la frizione che la renderà poco popolare tra i suoi concittadini.
C’è un livello in chi scrive, che non può essere sottomesso a troppi ritocchi o trattative. Lì non c’è solo la voce, lo stile dello scrittore, ma qualcosa che comunica con una parte profonda, a volte cupa. Una scena può essere scritta in una dozzina di modi diversi. Chi scrive lo sa, perché magari non è in grado di sostituire lo pneumatico della propria automobile, e se ne sta lì al bordo della strada, sotto l’acquazzone, in attesa che un samaritano lo aiuti.
Però imbocca quella strada, invece di quell’altra che sarebbe più agevole. O condurrebbe più in alto. Non è masochismo, sul serio.
Immagino si tratti di materia grigia di ottima qualità e di grande quantità. E di una volontà ben precisa che sceglie con consapevolezza sentieri meno ovvi. E anche di disciplina, perché materia grigia e volontà spesso rischiano di sbriciolarsi se non c’è un nerboruto bastone che mena fendenti contro le idee, le ideuzze e i consigli di questo o quello.
Poco oltre la O’Connor aggiunge:
Se voglio crescere come scrittrice devo farlo a modo mio.
Perfetto, secondo me. Va nella direzione solita, quella che persino io dal basso della mia inesperienza scrivo: si è soli e basta. Certo è indispensabile leggere tanto, ascoltare questo e quello perché spesso hanno qualcosa da dire. Però l’ultima parola non è del lettore, del mercato, del mezzo, della tecnologia o dell’editor e/o editore.
Bensì di chi scrive.
E costui, o costei che dir si voglia, non può essere un fesso, ma sapere cosa vuole, e dove vuole andare a parare. Se non lo sa lui, non glielo può dire nessuno e probabilmente un certo tipo di editore potrebbe scartarlo all’istante proprio per mancanza di “chiarezza di intenti”.
Certo, ci sono editori anche importanti, che non gliene importa un fico secco di cosa frulla nella testa di chi scrive; e meno roba ci frulla, meglio è. E c’è molto spazio e consenso e successo per chi la pensa in questo modo (ma di solito non pensa).
Questo modo di agire è letteratura? Editoria?
Dalla savana dove risiedo (la provincia di Savona), mi permetto di rispondere: “No”.
Ribadisco un concetto a me caro. Ciascuno la pensi come vuole; legga cosa preferisce. Si faccia bollire nel brodo di giuggiole dei best-seller (che pure io leggo, eccome). Però occorre prima o poi tracciare una linea, un confine, uno spartiacque.
Non tutti i libri sono uguali, e alcuni hanno un valore superiore rispetto agli altri. E ci sono scrittori che lo sono di più di altri, anche adesso che c’è il Web, il self-publishing, Facebook e tutto il baraccone .net che ne è venuto fuori.
Il mondo è zeppo di persone persuase di aver scritto fior di capolavori in tre settimane nette; e che non tollerano nemmeno il pensiero che si debba togliere una virgola. Sto forse fornendo un alibi a costoro? Può darsi, ma non è il mio intento, anzi.
L’editoria è un luogo dove è necessario entrare armati di tutto punto. Qualcosa sarà necessario abbandonare, qualcosa invece risulterà indispensabile portare con sé per sempre. Se non si hanno le idee chiare, né capacità di negoziare, si diventerà preda di mode e desideri altrui. Come si può intuire, cosa custodire gelosamente e cosa invece abbandonare non posso certo dirlo io.
È affare di chi scrive.