Gaius Suetonius Tranquillus, De vita Cæsarum, Vita divi Iuli, LXXXI, LXXXII.
(…)et immolantem haruspex Spurinna monuit, caueret periculum, quod non ultra Martias Idus proferretur. pridie autem easdem Idus auem regaliolum cum laureo ramulo Pompeianae curiae se inferentem uolucres uarii generis ex proximo nemore persecutae ibidem discerpserunt. ea uero nocte, cui inluxit dies caedis, et ipse sibi uisus est per quietem interdum supra nubes uolitare, alias cum Ioue dextram iungere; et Calpurnia uxor imaginata est conlabi fastigium domus maritumque in gremio suo confodi; ac subito cubiculi fores sponte patuerunt. Ob haec simul et ob infirmam ualitudinem diu cunctatus an se contineret et quae apud senatum proposuerat agere differret, tandem Decimo Bruto adhortante, ne frequentis ac iam dudum opperientis destitueret, quinta fere hora progressus est libellumque insidiarum indicem ab obuio quodam porrectum libellis ceteris, quos sinistra manu tenebat, quasi mox lecturus commiscuit. dein pluribus hostiis caesis, cum litare non posset, introiit curiam spreta religione Spurinnamque irridens et ut falsum arguens, quod sine ulla sua noxa Idus Martiae adessent: quanquam is uenisse quidem eas diceret, sed non praeterisse.
Assidentem conspirati specie officii circumsteterunt, ilicoque Cimber Tillius, qui primas partes susceperat, quasi aliquid rogaturus propius accessit renuentique et gestu[m] in aliud tempus differenti ab utroque umero togam adprehendit: deinde clamantem: ‘ista quidem uis est!’ alter e Cascis auersum uulnerat paulum infra iugulum. Caesar Cascae brachium arreptum graphio traiecit conatusque prosilire alio uulnere tardatus est; utque animaduertit undique se strictis pugionibus peti, toga caput obuoluit, simul sinistra manu sinum ad ima crura deduxit, quo honestius caderet etiam inferiore corporis parte uelata. atque ita tribus et uiginti plagis confossus est uno modo ad primum ictum gemitu sine uoce edito, etsi tradiderunt quidam Marco Bruto irruenti dixisse: καὶ σύ, τέκνον; exanimis diffugientibus cunctis aliquamdiu iacuit, donec lecticae impositum, dependente brachio, tres seruoli domum rettulerunt. nec in tot uulneribus, ut Antistius medicus existimabat, letale ullum repertum est, nisi quod secundo loco in pectore acceperat. Fuerat animus coniuratis corpus occisi in Tiberim trahere, bona publicare, acta rescindere, sed metu Marci Antoni consulis et magistri equitum Lepidi destiterunt.
(…) E mentre stava compiendo un sacrificio l’aruspice Spurinna lo avvisò di guardarsi da un pericolo, che si sarebbe presentato non oltre le Idi di Marzo. Proprio il giorno prima delle stesse Idi un uccellino con un ramoscello di alloro nel becco si introdusse nella Curia di Pompeo e uccelli di vario genere lo raggiunsero dal bosco vicino e lì lo sbranarono. La medesima notte, cui seguì il giorno dell’omicidio, a lui stesso nel sonno sembrò ora di volare sopra le nubi, ora di stringere la mano a Giove; e la moglie Calpurnia sognò che crollasse il tetto della casa e il marito fosse trafitto nel suo grembo; poi, d’un tratto, le porte della camera si spalancarono da sole. Per questo, ma anche per la sua salute malferma, rimase a lungo indeciso se restare in casa e rimandare gli affari che si era proposto di affrontare al senato, infine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non lasciare là i senatori che in gran numero già lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì e dalle mani di un passante che gli era venuto incontro prese un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme alle altre carte che teneva nella sinistra, come se volesse leggerlo più tardi. Allora, dopo aver fatto numerosi sacrifici, senza ottenere presagi propizi, entrò nella Curia incurante dei segni celesti e canzonando Spurinna come falso indovino, perché le Idi di Marzo erano giunte senza danno per lui: ma Spurinna ribatté che erano venute, ma non erano ancora passate.
I cospirati lo attorniarono a mo’ di omaggio mentre sedeva e subito Cimbro Tillio, che si era preso l’onere dell’iniziativa, gli si avvicinò come se volesse chiedergli qualcosa e, al suo diniego e al cenno di rifiuto per rimandare la cosa ad altro tempo, afferrò la toga da entrambe le spalle: allora mentre gridava: ‘ma questa è violenza!’ uno dei due Casca lo ferì da dietro poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo ferì con lo stilo e mentre tentava di buttarsi in avanti fu fermato da un’altra ferita inferta; e quando si accorse d’essere aggredito da ogni parte con le armi impugnate, si avvolse il capo con la toga, mentre con la sinistra fece scendere l’orlo fino ai piedi, per cadere più decorosamente con la parte inferiore del corpo anch’essa coperta. E così fu trafitto da ventitre colpi emettendo un solo gemito al primo colpo senza alcuna parola, anche se alcuni hanno raccontato che avrebbe detto a Marco Bruto mentre gli si avventava: καὶ σύ, τέκνον; esanime, mentre tutti fuggivano, lì giacque per un po’ di tempo, finché non fu caricato su di una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, e tre giovani servi lo riportarono a casa. Secondo il referto del medico Antistio, nessuna delle ferite era da ritenersi mortale ad eccezione di quella al petto ricevuta per seconda. L’intenzione dei congiurati era di gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscarne i beni , rescindere gli atti, ma rinunciarono per paura del console Marco Antonio e del magister equitum Lepido.