Il 15% della carne bovina italiana è trattato con ormoni e sostanze vietate
Negli allevamenti italiani ed europei gli ormoni anabolizzanti per “gonfiare” i bovini da carne e rendere la carne più tenera sono vietati, ma diversi allevatori non rispettano il divieto. Anche i controlli esistono (ogni Paese della Comunità europea attua un Piano nazionale dedicato alla sorveglianza e al monitoraggio di eventuali residui di sostanze chimiche illecite negli alimenti di origine animale) ma il sistema presenta alcune carenze.
In Italia si è deciso di fare di più e da qualche mese è attivo un nuovo Centro di referenza nazionale per le indagini biologiche sugli anabolizzanti animali, istituito dal Ministero della salute presso l’Istituto zooprofilattico sperimentale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Tra i compiti principali del Centro, quello di mettere a punto nuovi metodi di analisi e di diagnosi di sostanze illecite nelle carni bovine.
«Per una lunga e consolidata tradizione, gli esami ufficiali che si eseguono oggi per individuare residui di anabolizzanti sono di tipo chimico» spiega Elena Bozzetta dell’Istituto zooprofilattico torinese, responsabile del nuovo Centro. Grazie all’uso di strumentazioni sofisticate, si riesce a individuare nel sangue o nelle urine di animali vivi la presenza di sostanze illecite e a caratterizzarle con precisione. In pratica, si dà un nome e cognome alla molecola che non dovrebbe esserci. «I metodi chimici, però, hanno due limiti – chiarisce l’esperta – sono molto costosi e funzionano solo dopo un breve intervallo di tempo da quando è stata somministrata all’animale la sostanza vietata. Se sono trascorsi un paio di giorni dal trattamento, le analisi non sono più in grado di identificare l’illecito».
Per questo motivo Bozzetta con il suo gruppo di ricerca lavora da anni alla messa a punto di metodi alternativi, di tipo biologico. «Stiamo parlando di tre categorie principali di ormoni: i cortisonici, gli steroidi sessuali e i tireostatici, che agiscono in modo specifico su diversi organi bersaglio, cioè rispettivamente il timo, le ghiandole sessuali secondarie, come la prostata e le ghiandole bulbo-uretrali nel bovino maschio, e la tiroide. Nel nostro laboratorio abbiamo raffinato e standardizzato un metodo istologico per analizzare questi organi». Si tratta di prelevare campioni di organi al macello, allestire dei preparati da osservare al microscopio e verificare se nei tessuti ci sono alterazioni indicative di un trattamento collegabile ad un certa categoria di sostanze. «Il metodo – continua Bozzetta – non permette di identificare la singola molecola illecita coinvolta, ma evidenzia l’esistenza di un trattamento».
Oltre ai costi ridotti rispetto alle analisi chimiche, il grande vantaggio è la possibilità di individuare illeciti anche a distanza di tempo, addirittura a 2/3 mesi dalla somministrazione. Questo aspetto fa crescere inevitabilmente il numero di positività. «Se a livello europeo la media di casi positivi riscontrati con le analisi chimiche è dello 0,2% (ogni 1000 campioni analizzati, 2 risultano trattati con sostanze vietate), i monitoraggi eseguiti in Italia con metodo istologico fanno salire questo dato al 15%».
Al momento il risultato ottenuto con metodo istologico non ha valore ufficiale e legale. «È chiaro però che funziona da deterrente» afferma Bozzetta. «Da un lato, offre indicazioni in più per indirizzare i test chimici ufficiali e dall’altro lancia il segnale che qualcosa sta cambiando nel panorama dei controlli». A fianco di una normativa che è ancora di un certo tipo, sta crescendo il consenso della comunità scientifica internazionale verso i nuovi metodi alternativi.
«È vero che le indagini biologiche non permettono di caratterizzare con sicurezza la molecola coinvolta, ma ci dicono che c’è stato un trattamento illecito e che l’animale è stato trattato con qualcosa che non doveva essere utilizzato. Per molti scienziati è più importante sapere questo, ai fini della tutela della sicurezza del consumatore, che conoscere nome e cognome della molecola». Secondo Bozzetta serviranno almeno 5/6 anni perché questo cambiamento culturale porti a una modifica della normativa.
Nel frattempo, come dovrebbe reagire il consumatore sapendo che ben 15 campioni su 100 di carni avviate al macello non sono conformi alla legge? In realtà non bisogna allarmarsi troppo: il semplice fatto di avere a disposizione questi dati significa che si sta lavorando – e seriamente – per tentare di risolvere il problema. «È sempre bene rivolgersi a fornitori di fiducia, magari a produttori che si riescono a conoscere meglio, anche se la carne può costare un po’ di più» consiglia Bozzetta. Stanno anche aumentando i fornitori e le catene di supermercati che chiedono a laboratori come quello dell’Istituto zooprofilattico piemontese di condurre indagini sugli animali commercializzati, a garanzia della loro sicurezza.
Intanto la ricerca continua: oltre al metodo istologico, per esempio, nel laboratorio di Torino si lavora anche alla messa a punto di altri strumenti di indagine di tipo biologico, e non solo. «Con il Politecnico di Torino abbiamo sviluppato a un metodo fisico per la determinazione nel siero del 17-beta estradiolo, uno steroide sessuale» racconta la responsabile del Centro di referenza.
«Si basa su una specie di bilancia che permette di discriminare con grande accuratezza l’ormone esogeno, fornito dall’esterno, da quello endogeno, presente naturalmente nell’organismo». Ancora aperta, infine, la sfida sul fronte bovine da latte. Qui il problema principale è il trattamento con l’ormone della crescita somatotropina, una molecola che in grandi quantità è considerata tossica, ma della quale è molto difficile dimostrare la presenza e sulla quale è complicato fare ricerca. Noi, per esempio, non riusciamo neppure ad attivare dei progetti perché fatichiamo anche a reperirla sul mercato».