Ho girato una cinquantina di film usando sempre la fantasia per rafforzare le storie. Qui invece non ho aggiunto nulla. Ho solo testimoniato la realtà
Il diritto rubato
di Gaetano Vallini
Non era impresa facile raccontare senza cedere all’enfasi, a un facile moralismo e a un eccesso di sentimentalismo la storia di un bambino che assiste all’irrecuperabile separazione dei genitori e del conseguente vigliacco abbandono che è costretto ad affrontare, vittima sacrificale di un conflitto di cui non ha alcuna colpa. Eppure Pupi Avati riesce nell’intento e con il film per la televisione Il bambino cattivo firma un’opera che, pur con delicatezza e tatto, smaschera senza indulgenza tutte le meschinità degli adulti, sempre pronti ad autoassolversi, incapaci di comprendere la sofferenza che infliggono ai figli, il trauma a cui li sottopongono, chiedendo semmai che siano loro a capire.
Attraverso lo sguardo ingenuo, ma impietoso e non ignaro del piccolo protagonista, il regista smonta infatti uno a uno gli alibi, le bugie, i sotterfugi di genitori che non esitano a usare il figlio come un’arma e, come tale, a disfarsene dopo aver colpito. Certo non tutti i divorzi e le separazioni arrivano all’abbandono — il più delle volte i bambini vengono affidati a uno dei due genitori — ma non di rado i percorsi seguono un simile copione, dolorosamente noto.
Copione che per questo film — in onda su Raiuno nella serata di mercoledì 20 novembre, giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell'adolescenza, in un palinsesto in gran parte dedicato ai minori — Avati non ha avuto bisogno di inventare. L'ispirazione gli è venuta dalla storia del bimbo conteso di Cittadella, preso da scuola con la forza in esecuzione di un'ordinanza della magistratura sotto gli occhi increduli degli alunni, degli insegnanti e di molti genitori. Il resto è purtroppo nel quotidiano, nelle “normali” vicende di bambini contesi.
«Ho girato una cinquantina di film — ha infatti sottolineato il regista nella conferenza stampa di presentazione — e ho sempre usato la fantasia per rafforzare le storie. Questa volta non ho aggiunto nulla. Ho soltanto testimoniato la realtà. Ho voluto raccontare il comportamento indecente degli adulti. Genitori che peraltro, pur distruggendo la vita di un bambino, di fronte alla legge non hanno commesso alcun reato. Non si tratta più solo di leggi, ma di coscienza. Il Paese va rimesso in piedi ricostruendo la coscienza personale».

Il protagonista è Brando (Leonardo Della Bianca), 11 anni. La mamma, Flora (Donatella Finocchiaro), alcolizzata, soffre di ricorrenti e gravi crisi depressive. Il padre, Michele (Luigi Lo Cascio), è un uomo immaturo e assente. I due, entrambi insegnanti, sono in rotta da anni. E lui, che vorrebbe solo affetto e serenità dai genitori, stretto nel mezzo, viene invece tirato da una parte e dall’altra, coinvolto nei litigi e nelle recriminazioni, e non ha la forza per difendersi: trova rifugio solo nei suoi beniamini del calcio e del wrestling. La situazione precipita quando Michele stringe una relazione con una vecchia fiamma. A Brando viene chiesto di capire, di essere complice, anche se non ha gli strumenti per accettare e gestire quel tradimento. E neppure Flora, purtroppo, la quale tenta un suicidio da cui non si riprenderà più.
Comincia la battaglia giudiziaria, il periodo più difficile per Brando. All’inizio sta con la nonna paterna, molto affezionata al bambino ma non in grado di occuparsene. Poi il contatto con i nonni materni, che però quasi non conoscono il nipote e che non hanno intenzione di prendersene cura. Anzi lo usano per sottrarlo al genero, che non vuole rinunciare a quella nuova relazione. Rinuncerà piuttosto al figlio il quale, non potendo essere affidato alla mamma ormai psichicamente incapace, viene affidato a un tutore dopo la dichiarazione dello stato di abbandono, e portato in una casa famiglia.
Brando affronta una lotta impari, durante la quale si aggrappa alla speranza che comunque uno dei due genitori possa alla fine prendersi cura di lui. Speranza che s'infrange quando si sente chiamare “cattivo” da chi l’ha messo al mondo, incolpato di qualcosa che non ha fatto. E quando si rende conto che il padre, ormai preso dalla nuova relazione e da un figlio in arrivo, si è praticamente dimenticato di lui. Brando non ha più una famiglia. Ma il destino gli riserverà una seconda possibilità, per provare a essere di nuovo felice.
Il bambino cattivo è dunque un film sull'amore negato e su un diritto rubato: quello ad avere una famiglia. Uno di quei film in qualche modo necessari. La secca e sobria struttura del racconto, con un punto di vista che svela la cecità del mondo degli adulti, con il loro egoismo e narcisismo, commuove, inquieta e invita a riflettere. E Avati ha ringraziato la Rai per avergli dato la possibilità di realizzare un'opera che al cinema non avrebbe trovato spazio. Forse perché non ha incertezze nel denunciare che le vittime più esposte nella disgregazione dei matrimoni sono proprio i figli, considerati oggetti passivi, sottoposti a uno sballottamento affettivo e istituzionale che lascerà segni indelebili.
Ma Il bambino cattivo è anche un film che parla di speranza. Perché alla fine del tunnel una luce può venire dall'adozione. Perché non è necessario un legame di sangue per affezionarsi a un bambino, volergli bene e amarlo come un figlio.
(©L'Osservatore Romano – 21 novembre 2013)