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“Il bambino che sognava i cavalli”, di Pino Nazio

Creato il 16 novembre 2010 da Fabry2010

Pino Nazio

Il bambino che sognava i cavalli

ed. Sovera

Recensione di Giovanni Agnoloni

Un libro sulla mafia non è una novità. Potrebbe sembrare qualcosa di già detto. Qualcosa che non aggiunge nulla. Il bambino che sognava i cavalli sembra tener conto di questo, perché invece spiazza il lettore. La storia di Santino De Matteo e di suo figlio Giuseppe, il bambino rapito nel 1993 e sequestrato per 779 giorni, per poi essere ucciso e sciolto nell’acido, parla attraverso una storia che è figlia dell’esperienza e della dettagliata documentazione giornalistica dell’autore, Pino Nazio.
In quest’opera, edita da Sovera, per la prima volta viene riportata in forma obiettiva eppur sensibile una storia fino ad oggi descritta quasi esclusivamente dai protagonisti stessi, i mafiosi, e praticamente dimenticata dai cronisti, diversamente da tanti altri tristi fatti di cronaca e criminalità. Ma questo non è solo un racconto: l’occhio dell’autore decide di scandagliare i misteri di quel territorio infido e limaccioso che l’omertà rende segreto.
Si risale così all’origine della storia di Santino De Matteo, il pentito che per primo ha sollevato il velo di silenzio davanti ai magistrati, rivelando la verità dietro le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Alla sua infanzia, quando il padre, anche lui uomo d’onore, portando in giro un carro con i bidoni del latte, gli trasmetteva le prime lezioni di codice mafioso. Ai primi contatti con l’ambiente dei boss, quando cresce e viene coinvolto nei primi omicidi. Quando la sua esuberanza di giovane allegro si trasforma, in una sinistra metamorfosi, in una maschera dietro la quale si nasconde la perdita dell’innocenza. La scissione dalla propria identità, in nome di un imperativo proveniente dall’esterno.
L’abilità di Pino Nazio è quella di sottolineare questa separazione di binari, attraverso il drammatico gioco della diversità di prospettive tra lo sguardo del mafioso e quello della moglie, Franca, che continua a vedere le cose come erano all’inizio, quando il marito non era ancora un assassino. Sceglie di non sapere, o non vuol credere ai sospetti che già aveva sulla figura del suocero, poi via via cresciuti anche sul marito (i suoi silenzi, il suo primo arresto, i tanti soldi che entravano in casa, l’amicizia con Giovanni Brusca). E questo sguardo sorpreso e perplesso si proietta e si trasferisce anche sui due figli, Giuseppe e Nicola, il primo dei quali vive la vita con un entusiasmo fresco e giovane che ricorda quello di suo padre, prima dell”inizio’. E che ama in modo particolare i cavalli, con cui arriva quasi a fondersi in un’unica entità, mentre cavalca.
Ma poi ci sono i fatti ‘di fuori’, i grandi massacri legati all’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino, che proiettano Santino in una dimensione di necessaria lontananza, fino all’arresto e al trasferimento a Roma. Allora i due binari iniziano ad avvicinarsi, perché anche Franca e Giuseppe cominciano a capire, proprio mentre Santino prende a pensare seriamente al pentimento. La verità è deflagrante, ma l’aspetto più bruciante è che prelude a una separazione definitiva. L’illusione di poter sfuggire a ritorsioni, da parte dell’ambiente mafioso, spinge i Di Matteo a decidere di non andar via dal paese. Giuseppe stesso vuole restare, quasi per rimaner fedele al loro sogno di vita tranquilla. Altofonte diventa così una sorta di roccaforte ideale, che non riesce a impedire il rapimento del ragazzo, organizzato proprio dall’amico di video-game Giovanni Brusca, che deve ubbidire a un ordine superiore. Rapire Giuseppe per far ritrattare Santino.
E qui l’orrore inizia ben prima del capitolo chiuso quasi alla fine di questo libro. E’ un crescendo di tortura fisica e psicologica, che culmina in quello che personalmente ho potuto solo immaginare, perché non ho avuto il coraggio di tagliare quelle pagine.
Forse è per questo che questo libro è importante.
Perché qualcuno questo coraggio ce l’ha avuto.
Perché le ha scritte.



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