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Il bene di chi legge

Da Marcofre

Non è bizzarro o troppo serio parlare di arte nella scrittura? Parliamoci chiaro: di fenomeni geniali ce ne sono pochi, e la maggior parte degli autori pur bravi, non riescono affatto a raggiungere i livelli di un Garcia Marquez.

E allora?

Se uno scienziato parla della scienza, di scopi e metodi di lavoro, di capacità e abitudini, nessuno ci trova nulla di strano. Non sarà mai Einstein, però che parli con regolarità di scienza non turba e neppure attira curiosità particolari.

Perché un autore che parla di arte deve essere considerato snob? Di che deve parlare? Di bilici? È nel suo elemento di riferimento, o perlomeno dovrebbe esserci. La sua intera opera in un modo o nell’altro ha come scopo l’arte. Può riuscirci, oppure può solo tendervi ma è il suo mare: ci sguazza e basta.

È un discorso delicato, come si può intuire: perché chiunque può definirsi artista. Scrive una poesia:

Il mio amore

bussa al tuo cuore,

troverà calore?

Non darmi dolore!

Et voilà, abbiamo tra noi un artista nuovo di zecca. Facciamo largo, suvvia, niente facce da funerale, stiamo un po’ stretti, però lui è un artista senza dubbio.
Ha scritto una poesia.
Ah, la poesia in rima pare che si sia impiccata nell’anno 1775 nella foresta di Epping, a dieci miglia da Londra. È indelicato accanirsi sul suo cadavere.

L’arte, come la scrittura, non è affatto qualcosa di etereo, ma di concreto. L’idea che si tratti di aria è una leggenda che si è propagata attraverso i secoli, e che trova asilo soprattutto tra coloro che hanno bisogno di qualcosa di inconsistente per proporre le loro opere altrettanto inconsistenti. Perché non ci vuole niente a scrivere, già.

Benché possa apparire azzardato, l’arte si giudica dalla bontà; non dall’utilità perché immagino che siano poche le cose così inutili come la Pietà di Michelangelo. Come si può parlarne mentre la gente soffre e muore di fame?

Bontà: forse è qui la caratteristica dell’arte. E intendo qualcosa che prima di tutto sia un atto. La Pietà di Michelangelo, le opere di Picasso, sono atti, appunto. Hanno alle spalle un giudizio, un’osservazione, una precisa scelta. E poi tanta disciplina, determinazione e silenzio. Quando infine l’individuo le osserva, quell’atto non smette la sua opera. Si “trasferisce” in lui e non di rado la sua vita si modifica, a volte senza che ne abbia una chiara percezione.

È un atto che vuole il bene di chi legge o osserva. Trasmette la sensazione che l’osservatore non è un numero, ma un essere vivente che può cogliere quello che l’opera cerca di mostrare. È una superba prova di fiducia, il più delle volte mal riposta, ma fa parte del gioco. Milioni di persone ogni anno passano davanti alla Pietà e sbadigliano. Fotografano la Gioconda al Louvre, e continuano a invecchiare su Facebook.

Quando si comincia a ragionare su questi argomenti, il resto si rivela per quello che è: fumo. Chiacchiere.

Quello che si trova alla fine, è il potere della parola.

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