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Il segnale inequivocabile dell’approssimarsi delle elezioni sono le faide che si stanno scatenando all’interno del partito democratico e, più in generale, nel centrosinistra. Un riflesso pavloviano: appena si affaccia l’ipotesi di una votazione e, ancor più, di una possibile vittoria, iniziano i litigi. Verrebbe quasi da rimpiangere il centralismo democratico del vecchio Pci. Ora è “tutti contro tutti e ognuno per se”, al massimo per la propria corrente. I volti, alla fine, sono gli stessi di sempre. Sulla questione, ha ragione da vendere Matteo Renzi: “non è possibile che cambino continuamente i simboli dei partiti e restano sempre le stesse facce”.
La tre giorni alla stazione Leopolda ha ufficializzato le ambizioni di leadership del sindaco di Firenze. Una proposta di rottamazione del Pd e di un vecchio modo di fare politica, al quale si vuole contrapporre una proposta diretta e partecipata, non ingessata da rituali oligarchici. Un “partito format”, secondo la definizione di Aldo Grasso, giovanilista, ammiccante, piacione. “Si è presentato con il vestito della prima comunione”, ha ironizzato Luciana Littizzetto, mentre Maurizio Crozza è stato più cattivo: “il niente che avanza”. Il “Big Bang” ha ovviamente scatenato anche la reazione dell’establishment di sinistra. “Tardo blairismo in salsa populista”, per Rosy Bindi; “Renzi nel Pd è una contraddizione”, la quasi scomunica di Cofferati. Diplomatico invece Bersani. A differenza di Vendola: “Renzi è il vecchio”. Di certo, non unisce. Tanto da alimentare le peggiori illazioni. È stato addirittura ripescata dagli archivi Mediaset una puntata della Ruota della fortuna alla quale partecipò (e vinse). È stato ricordato l’incontro con Berlusconi ad Arcore (dicembre 2010), una visita a domicilio inconsueta da un punto di vista istituzionale, guardata dal Pd con sospetto e irritazione. È stato sottolineato con abbondante dose di malizia il contributo di Giorgio Gori (l’ex direttore di Canale 5 che portò in Italia il Grande Fratello, poi fondatore di Magnolia, società che produce L’Isola dei famosi) alla stesura delle “cento idee per l’Italia”. Tre indizi che fornirebbero la prova schiacciante di un Renzi “Berlusconi di sinistra”. Pierfranco Pellizzetti è andato giù pesante: “Il solo elemento di novità del renzismo è l’uso spregiudicato delle tecniche di comunicazione imbonitoria”.
Dalla disfida tra i ricostruttori di Bersani e i rottamatori di Renzi, a rimetterci potrebbe essere, come al solito, l’intero centrosinistra. Il programma della Leopolda, è stato detto, è discutibile e integrabile. A mio avviso, una lacuna andrebbe colmata in via preliminare. Altrimenti è impossibile confrontarsi sul resto. Il peccato originale della sinistra è la mancata approvazione di una legge sul conflitto d’interessi, subito dopo la vittoria alle elezioni del 1996. Bisogna stabilire, una volta per tutte, che chi – come il premier – si trova al centro di un groviglio di interessi, soprattutto nel settore dell’informazione, non può fare politica, per la ragione elementare che il suo tornaconto personale prevarrà sempre sul bene della collettività. Oggi, non sarebbe neppure un provvedimento punitivo contro Berlusconi, ormai al termine della sua parabola politica. Semplicemente, la regolamentazione di un’ anomalia inconcepibile in un Paese democratico.
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