Viviamo in guerra. Una guerra anemica, senza sangue, diversa, brutta certamente, dove non esistono fazioni nette e nemici da odiare. Gli amici, poi, sono continuamente pronti a dimostrare il contrario di quello che si era pensato.
Cosa Nostra è la mafia più istituzionalizzata che insozza l’Italia e se non si parte da questa sicurezza essa si può confondere con le altre criminalità organizzate, ognuna diversa, ognuna terribile, ma non così connesse con lo stragismo italiano. Lo stragismo è una piaga del Paese. Compiuto da pezzi dello stato, servizi segreti, delinquenza usata per scopi politici e di assestamento socio-culturale. Solo Cosa Nostra, e non la n’drangheta o la camorra o la SCU, poteva essere utilizzata per le stragi, proprio perché Cosa Nostra è la mafia più istituzionalizzata del Paese. Divenne forte perché aiutò le forze americane a sbarcare in Sicilia nella Seconda Guerra Mondiale, poiché ogni guerra si conduce per via e a causa di legami e apparentamenti inconfessabili; il resto è storia per libercoli stilati da Ciranna e disegni oleografici ingigantiti e rimpiccioliti con il pantografo dell’ipocrisia.
Un fatto. La mafia, Cosa Nostra, si è radicata perché lo Stato, l’Italia, glielo ha permesso. Forse in virtù di sacri vincoli, forse perché, banalmente, come accade per tutte le criminalità organizzate del mondo, il prodotto illecito dei loro traffici viene reinvestito nell’economia legale per costruire strade, ponti e quanto di altro. Un fatto è certo però, senza l’avallo delle forze politiche e, nella fattispecie, delle Istituzioni, non avrebbe mai costituito una parte incisiva della società, si potrebbe dire una parte socio-economica con cui lo Stato ha dialogato, verso la quale lo Stato ha dimostrato tolleranza, diplomazia e realpolitik e di cui lo Stato si è servito. Come se Cosa Nostra fosse uno stato nello stato, una forza eversiva con le proprie ragioni dentro uno Stato centrale, una Catalogna o i Paesi Baschi, una Confindustria o un sindacato con i quali, nel peggiore dei casi, concertare, limare, venire a patti, usare quello che per molti è fare politica. Mediazione.Negli ultimi mesi le vicende annose della trattativa Stato-mafia sono arrivate ad una svolta, ad un punto di non ritorno: o lo Stato, le Istituzioni, decidono di smascherarsi ed ammettere una qualche responsabilità oppure una nuova “piazza fontana” è possibile con la conseguenza che mai avremo la verità, sempre avremo le dietrologie, di anno in anno spunterà la voce, il pentito, la cassandra che forniranno altro materiale buono più per le teorie da cospirazione che per una vera e propria consapevolezza nazionale. Per questi motivi il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale contro i pm della Procura di Palermo, due giorni prima del ventennale della morte di Paolo Borsellino, va in una direzione che nel paese delle verità monche è, decisamente, sbagliata. Certamente si può non essere d’accordo con quanto testé asserito, nessuno, però, ha ancora la verità sulla trattativa e ogni intralcio a chi da anni la sta cercando, e proveniente per giunta dal massimo organo rappresentativo delle Istituzioni, non agevola, altrettanto certamente, questa ricerca. Incendiare il dibattito e porre un conflitto tra poteri dello Stato, quando lo Stato, minacciato alle sue stesse fondamenta, dovrebbe presentarsi unito, compatto e coeso perpetua l’abominio delle ceneri, la minaccia dell’abiura, la paura della verità. Conflitto tra poteri dello Stato, a pochi giorni dalla commemorazione di Paolo Borsellino, che proprio da quella Procura, la palermitana, aveva avviato, insieme ai suoi valorosi colleghi, l’attacco alla piramide impenetrabile di Cosa Nostra, è un gesto che se consumato da Silvio Berlusconi avrebbe insinuato nelle menti dell’intellighenzia di sinistra il sospetto del simbolico, l’ombra del sotto-testo, la mano tesa verso l’orca mafiosa.
Sulle intercettazioni che hanno visto protagonisti Mancino e l’appena defunto consigliere giuridico Loris D’Ambrosio e soprattutto tra
Nicola Mancino
Mancino e Napolitano se ne discute in abbondanza da settimane attraverso prove di forza tra giornalisti e opinionisti che con apodittiche prese di posizione difendono il proprio terreno senza mai, a parte qualche lodevole eccezione, scendere nel merito dei fatti.
L’esercito dei maestri di Gesualdo Buafalino pare sempre più lontano dall’orizzonte di una vicina realtà. Qui, in Italia, la verità si opacizza e viene misurata a seconda delle necessità. Nel complesso susseguirsi degli arzigogoli della trattativa Stato-mafia e dell’atteggiamento di Napolitano quello che è certo è che la verità ancora non esiste né è lontanamente condivisa da un popolo intero. La Storia insegna che senza un rispettato senso dei valori e della verità uno Stato non può formare né cittadini né Istituzioni degni. Per esempio sarebbe un guaio se un tedesco non sapesse con certezza che il Terzo Reich è stato una sciagura e che nel processo di Norimberga si stabilirono le colpe e i colpevoli di uno dei più grandi disastri dell’umanità. Lo stesso dovrebbe valere per la storia patria italiana.
La trattativa Stato-mafia è il perno su cui ruotano le ansie e le speranze della Repubblica Italiana. Ansie: perché non si può non sapere che cosa veramente accadde, è accaduto e continua ad accadere; speranze: perché l’utopia della verità circonda l’animo di un’agognata gioia che si liberebbe finalmente, in un colpo solo, e donerebbe la soddisfazione di essere, almeno per una volta, un Paese libero e civile.
Soltanto pochi giorni fa la Procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio di dodici uomini che avrebbero partecipato a questo nefasto abbraccio che ha insanguinato il presente della Repubblica. Oltre ai padrini corleonesi ci sono, nella stessa richiesta di giudizio, i politici, coloro i quali darebbero forma, nel caso la richiesta di rinvio a giudizio fosse accolta, a quello che tutti sanno e di cui nessuno ha le prove: la mafia per proliferare, arricchirsi, radicarsi e istituzionalizzarsi ha avuto l’appoggio della politica, non quella minore, dei sistemi clientelari, dei capi bastone, ma quella con la P maiuscola: le Istituzioni. Ci dovrebbe poi essere un processo, certo, per comprendere la complessità di questa unione ma solo il rinvio a giudizio sarebbe la possibilità che una nazione intera aspetta da anni.
Di sicuro a molti dei sessanta milioni di italiani ciò non interessa. Molti non hanno neanche la curiosità di sapere, molti altri non conoscono neanche le ragioni e l’importanza di quello che potrebbe scaturire da un processo del genere, ma la Storia, quella sì, richiede con forza l’occasione di essere scritta a futura memoria dei posteri e delle generazioni che si ritroveranno in un Paese senza dubbio più povero ma almeno ricco di trasparenza e umanità.Giovanni Falcone sosteneva che la mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e una fine, la mafia, quindi, è un fatto storico come la deportazione dei neri dall’Africa all’America colombiana e il sistema delle simonie. Fatti, questi, che non esistono più e che nessuno mette in dubbio che siano esistiti.
Per cui serve nettezza:
il presidente Napolitano non è stato intercettato, non vi è inoltre alcun articolo 90 della Costituzione, combinato con l’articolo 271 del codice di procedura penale (si prega di leggerli), così come apoditticamente dichiarato da Eugenio Scalfari su La Repubblica, che certifichi l’automatica distruzione delle intercettazioni inerenti all’indagato Nicola Mancino che parla con Giorgio Napolitano.
Nicola Mancino, pur essendo stato senatore e vicepresidente del Csm, Consiglio Superiore della Magistratura, non gode di alcun tipo di immunità, è stato intercettato come privato cittadino da una Procura che indaga su connivenze, silenzi, e veri e propri abbracci mortali tra politica e mafia. Districare l’avviluppo della trattativa, da cui la morte di alcuni tra i migliori servitori dello Stato, eroi nazionali, deriva, è un passaggio fondativo della nazione. Anche chi avesse una umana o anticonformistica avversione per il protocollo, lo Stato, dovrebbe volere la chiarezza, perché questa interessa una cosa suprema: la verità.
Nicola Mancino ha telefonato al Quirinale parlando sia con il defunto D’Ambrosio, sia con il presidente Napolitano, inducendo il Quirinale a scrivere una lettera alla Procura Generale della Cassazione per mano del segretario generale del Colle Donato Marra. Qualunque signor rossi, laddove coinvolto in una indagine, potrebbe telefonare al Quirinale e avere non solo cortese ascolto e attenzione ma addirittura premura e coinvolgimento per le individuali sorti? Risposta: NO. Ergo: sebbene il Colle non abbia interferito in alcun modo con la Procura di Palermo, già il fatto che si sia interessato alla vicenda rende questa Istituzione qualcosa di lontano dal ruolo di imparzialità che le compete e che deve preservare anche fosse coinvolto l’uomo più potente d’Italia.
Roberto Scarpinato, Procuratore generale della corte d’Appello nissena, ha tutto il diritto di scrivere una lettera e di criticare i sepolcri
Roberto Scarpinato
imbiancati della nostra democrazia nel giorno della morte di Paolo Borsellino. Lo deve a se stesso, lo deve alla famiglia Borsellino, lo deve alla memoria di chi vuole ricordare per costruire generazioni di menti consapevoli che sanno cosa è la mafia, la zona grigia e le forze della società che combattono sia l’una che l’altra.
Difendere un giudice o un’indagine non significa essere giustizialisti e con il mito della manetta, ma significa sperare, credere, agognare e battersi per uno Stato sempre più giusto e libero dove tutti, proprio tutti, possono dire la propria opinione senza la paura di essere tacciati di brigatismo, settarismo ed eversione.
Usare la morte di D’Ambrosio come un ricatto, da parte delle forze politiche, è un atto squallido ancorché ridicolo. D’Ambrosio era un consigliere del Quirinale che la stragrande maggioranza del popolo italiano non conosceva. Al netto dei doveri di cassetta cronachistici, perché non è stato dato il medesimo risalto alla morte di Michele Barillaro, morto il 24 luglio del 2012? Barillaro era un giudice che si era occupato del Borsellino ter e dell’attentato a Giovanni Falcone ed è morto in Namibia dove era in vacanza quando la sua jeep si è scontrata con un camion dopo che per mesi aveva ricevuto minacce di morte
Non si vuole insinuare niente. Non si sa se Barillaro sia stato vittima di un complotto e non lo si pensi fino a prova contraria. Ecco perché lo stesso non può essere pensato per la vicenda di Napolitano o per altre questioni aventi come protagonisti i politici e gli uomini di potere in senso lato, i quali, coinvolti in casi di intercettazioni, gridano al complotto. Grida seguite da invocazioni di riforma delle intercettazioni, leggi bavaglio ecc. Quando il potere viene denudato, il potere, invece di spiegare, frigna, e pretenderebbe un drappo per nascondere quello che nessuno deve sapere. Lo fa la destra berlusconiana, lo fa la sinistra, illegittima erede di una storia secolare che la vedeva vicina agli ultimi.
Dopo la disastrosa direzione della Rai, Mauro Masi è stato nominato amministratore delegato della Consap, la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici.
Ormai è più che palese di come la posizione sulle intercettazioni che riguardano politici, faccendieri, uomini dell’alta finanza, sia uguale tanto a destra quanto a sinistra. L’anno scorso, fine giugno del 2011, scoppiò uno dei peggiori scandali dell’ultimo lustro. Molti dei ministri del governo Berlusconi, il direttore generale della Rai Mauro Masi, l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni e tanti altri sono stati intercettati, mai direttamente, mentre parlavano al telefono di argomenti riguardanti il proprio ruolo e lavoro con Bisignani, piduista e coinvolto in numerosi scandali della Prima e della Seconda Repubblica. La reazione è stata che per almeno un paio di settimane i giornali e tutte le parti politiche di maggiore peso, Pdl Pd e Udc, sono stati unanimi nell’individuare il problema nel supposto scorretto uso delle intercettazioni. Invece di iniziare un serio dibattito sull’influenza di questo personaggio inquietante, importanti esponenti della Sinistra italiana, su tutti la dottoressa senatrice Anna Finocchiaro, hanno avanzato ipotesi di leggi per regolare le intercettazioni.
Se si attacca il Capo dello Stato ciò non equivale a vilipendio ma a libera critica e libertà dell’opinione così come viene insegnato nelle scuole, nelle Università e nella società italiana. Se i fautori del pensiero unico che infestano i maggiori giornali italiani non accettano un’opinione diversa dalla loro possono anche accomodarsi in Corea del Nord.
Per chi crede nello Stato, essere nominato nelle Istituzioni è un onore, ma non fa automaticamente di una persona una persona onorevole. L’onore si conquista con il carisma, la sensibilità e l’umiltà di mettersi in gioco. Non con il solo fatto di appartenere ad una categoria (i partiti) o perché la stampa istituzionale decreta l’insindacabilità di qualsiasi atto o parola venga compiuto o pronunciata.
Per costruire una generazione di persone consapevoli e attive, i cosi detti giovani, non si può pretendere che essi si comportino come chi li ha preceduti. Le novità, i salti che la Storia presenta, sono compiuti da donne e uomini che, con dignità e fermezza, rivoluzionano le forme che, per la stessa ragione intrinseca che divide il vecchio dal nuovo, non possono essere comprese da chi, di quelle forme, vede solo eversione e non luce nuova ad illuminare le vecchie scatole nere del sistema vigente.
L’ipocrisia delle Istituzioni e dei mezzi d’informazione italiani ha raggiunto il massimo livello negli ultimi anni. Lo prova il fatto che
quando c’è di mezzo il morto, fattosi ammazzare per difendere lo Stato, le suddette si chetano. Nessuno ha osato criticare il fatto che i famigliari di Borsellino hanno invitato i massimi organi delle Istituzioni a non inviare corone di fiori per i vent’anni della morte del giudice de La Kalsa.E’ umano, sacrosanto e giusto dimostrare diffidenza verso le Istituzioni nel Paese dei misteri irrisolti. In vicende come quelle di Borsellino e della trattativa, dove si è dimostrato attraverso diverse sentenze il colossale depistaggio attuato per assassinare la verità – per Borsellino siamo già al quarto processo dopo che per quasi vent’anni sono finiti in carcere uomini (su tutti Scarantino) che nulla avevano a che vedere con la strage del giudice. Se fosse avvenuto solo per Borsellino potremmo parlare di tragica casualità o rifugiarsi nella furba e mafiosa perifrasi “mele marce”. Il caso del giudice, invece, è solo l’ennesimo e controverso capitolo di una storia che dura da centocinquantuno anni, senza contare i fatti risalenti all’Italia pre-unitaria.