Due signori del calcio come Cesare Prandelli e Ciro Ferrara hanno posto il quesito. La presenza nel campionato di Serie B di una squadra composta esclusivamente da giovani talenti italiani. L’intenzione è garantire spazio e continuità di gioco a calciatori provenienti dal settore giovanile in grado di esprimere qualità tecnica ma oggi sacrificati sulle panchine e sulle gradinate degli stadi di Serie A.
Una sorta di Under 21 azzurra inserita in pianta stabile nel campionato cadetto per continuare a coltivarne il talento senza vederlo sfiorire, e magari appassire, senza possibilità di spazio nelle rispettive squadre.
La proposta ha raccolto l’adesione emotiva di tanti tra gli addetti ai lavori. Non è percorribile però sul piano pratico. Per esempio, la squadra s’aggiunge alle già troppe esistenti in Serie B (22 per 42 giornate su 52 domeniche solari in un anno) o prende il posto di una società?
Ed in campionato gioca fuori classifica? In questo caso bisogna capire con quali motivazioni vanno in campo le due squadre, col rischio di trasformare di fatto le gare ufficiali del calendario in amichevoli del giovedì.
Oppure gioca in classifica? In quest’altro caso se arrivasse una retrocessione sarebbe un flop totale dell’esperimento. Con una promozione, invece, le società proprietarie dei cartellini passerebbero subito all’incasso, riportandosi a casa i protagonisti. Col risultato che la rappresentativa della stagione successiva sarebbe svuotata del parco giocatori.
Della proposta di Prandelli e Ferrara, due signori con comportamenti sempre lineari nella rispettiva carriera di giocatori e di allenatori, occorre perciò coglierne il disperato grido d’allarme. Quando entrambi sono arrivati sulle panchine delle rappresentative azzurre più amate, la nazionale maggiore e soprattutto l’Under 21, hanno scoperto il dramma che avvolge il calcio italiano al di fuori dei faraonici titoli sui giornali e delle panchine extralusso. La perniciosa assenza di giocatori di casa su cui costruire un futuro.
Torniamo a riflettere sulla spedizione mondiale in Sudafrica. Non sul risultato, che più mortificante non si può, ma sulle polemiche intorno all’esclusione di Balotelli. La vera domanda da farsi è: in quattro anni, dal 2006 al 2010, abbiamo sfornato un solo giocatore di talento, irregolare quanto si vuole ma di talento?
Un solo giocatore? Questo è il vicolo buio, cieco e senz’uscita nel quale è stato infilato il nostro calcio. C’era una via maestra da percorrere con gli stranieri quando questi erano limitati a due o tre. Erano i tempi in cui ogni squadra del campionato di Serie A aveva i suoi Platini e Boniek, Passarella e Bertoni, Rummenigge e Hansi Muller, Zico e Edinho, Maradona e Careca, Falcao e Cerezo, Van Basten e Gullit. Nomi mostruosi che bastavano da soli per dare spessore strutturale, valore tecnico e stimoli a ciascun organico, facendo sbocciare i giovani che giocavano in squadra.
Poi la forbice s’è allargata a dismisura, le società hanno introitato stranieri a raffica per esigenze di bilancio. E affianco ai campioni conclamati ed ai fuoriclasse riconosciuti sono arrivati giocatori che tolgono spazio alle nuove leve senza incrementare la percentuale di qualità degli organici.
Tra gli spettatori e gli addetti ai lavori di un calcio sempre più televisivo e sempre meno vissuto dal vivo ora si distinguono due fasce ben precise. Quelli che guardano il giocattolo pensando che sia sempre il più bello del mondo e quelli che il giocattolo lo assemblano in funzione dei personali interessi di club. I primi sono felici del giocattolo senza capire quale sarà la fine del gioco, i secondi sono felici solo ed esclusivamente dei risultati societari.
Come se una manciata di coppe europee per club esposte in bacheca, che fa esultare di volta in volta una parte numericamente molto esigua della nazione, possano essere paragonate al valore di quattro coppe del mondo (2 Rimet e 2 Fifa) per la quale a festeggiare sono 60 milioni d’italiani.
Aprire gli occhi significa capire qual è il capolinea del giocattolo - calcio allo stato attuale e smascherare chi lo gestisce con prepotente arroganza. Tale da rifiutare l’unica proposta sensata partorita da Sepp Blatter in 13 anni di presidenza Fifa: la formula del 6+5 per le squadre di club. Ovvero la presenza obbligatoria in campo di sei giocatori di formazione indigena.
Una proposta sulla quale serve un placet a livello continentale, proposta che i clubs europei più importanti rifiutano tout court, proposta che quindi muore nel nulla.
E così per l’egoismo di pochi dirigenti, a cui la sponda più sostanziosa della stessa Serie A non riesce a ribellarsi, il valore sportivo primario (la nazionale azzurra con i suoi successi) deve subire i seguenti risultati: nella sua storia recente l’Italia ha pareggiato con la Nuova Zelanda (stessi abitanti del Piemonte), ha perduto con la Sovacchia (meno abitanti della Campania), ha vinto 1-0 in Slovenia (stessi abitanti della Calabria) e ha vinto 2-1 in Estonia (meno abitanti della Sardegna).
E se l’Italia vincesse con un solo gol di scarto in una partita ufficiale con la nazionale della Liguria, capiremmo a quale capolinea siamo arrivati?
Abbiamo vinto quattro coppe del mondo e ci obbligano a diventare sempre più ridicoli.