Un rapporto burrascoso
di Marco Cagnotti
Dal Seicento in poi, la tonaca e il camice di laboratorio non sono mai andati molto d’accordo. Anzi, per la verità si sono guardati sempre un po’ in cagnesco. Ammettiamolo: preti e scienziati ne avevano ben donde. I primi si vedevano erodere pian piano le certezze su cui fondavano la propria visione del mondo, messe in crisi dalle ricerche scientifiche che si impicciavano di ambiti prima riservati alla Rivelazione e alla speculazione teologica. Si cominciò con l’astronomia e si proseguì con le radici della vita e ora si conclude con la psicologia e la neurologia, che indagano nel foro interiore dell’uomo, dove dovrebbe annidarsi l’anima. Tutto quest’interrogarsi e scavare e dubitare appare, agli occhi del prete, molto blasfemo. Gli scienziati, dal canto loro, dopo l’abiura di Galileo e la condanna del darwinismo, confrontati poi con tutto l’apparato delle guarigioni miracolose e delle madonnine lacrimanti, hanno avuto facile gioco nell’accusare i preti di oscurantismo e credulità.
Così, fra sospetto e sfiducia, si è andati avanti fino al Concilio Vaticano II, ossia fino al momento in cui la Chiesa Cattolica si è trovata costretta a dover fare i conti con la modernità e a rimettersi in discussione in profondità. Un processo che non si è ancora concluso e che si manifesta in forme sempre nuove. Fra le ultime, l’apertura di Giovanni Paolo II all’evoluzionismo. Non stupisce allora trovare scienziati cattolici che si lambiccano il cervello per giustificare la verosimiglianza dell’esistenza di Dio basandosi sulla cosmologia e sulla fisica delle particelle. I preti prendono la palla al balzo e citano “il grande fisico, che anche lui pensa che Dio esista, proprio sulla base della scienza”. Del resto sarebbe sciocco negare che il Big Bang somiglia troppo al gesto di un Dio creatore per ignorarne le possibili implicazioni teologiche. E anche l’evoluzione della vita non esclude un intervento divino, qua e là nel corso dei milioni di anni. Insomma, il dialogo fra scienza e fede è oggi ampio e si sviluppa in un’ampia pubblicistica. Ma ha senso?
Poco, per la verità. Scienza e religione hanno un punto in comune: entrambe hanno la pretesa di fare affermazioni sulla realtà. Ma qui termina la somiglianza. Perché le realtà di cui si occupano sono differenti, e soprattutto diversi sono i metodi che applicano. Prima di entrare nello specifico, bisogna però chiarire di che cosa stiamo parlando. La religione è quell’insieme di convinzioni che esprimono il rapporto dell’essere umano con il sacro e con la divinità (se quest’ultima c’è, perché ci sono anche religioni che non la contemplano). La scienza… beh, anzitutto faremmo bene a dire che cosa la scienza non è. La scienza non è un’enciclopedia. Ovvero non è un ammasso di informazioni sugli astri, la Terra, gli animali, le piante, il corpo umano e la psicologia. La scienza è anzitutto un metodo per interrogare la realtà e ricavarne conoscenze. Quale realtà? Semplice: quella che può essere fatta oggetto di osservazione e misura. Il metodo scientifico si fonda sulla falsificabilità delle ipotesi: ogni scienziato, quando formula una teoria, deve specificare quali fenomeni, se osservati, la falsificherebbero. Si sostiene spesso che nella prassi scientifica non vale il “principio di autorità”: per quanto autorevole sia uno studioso, le sue affermazioni vanno confrontate alla pari con quelle dell’ultimo arrivato che ha un’opinione diametralmente opposta. Ma un’autorità ultima esiste anche nella scienza: il confronto con la realtà dei fatti, con l’evidenza sperimentale. E a quell’autorità tutti si devono inchinare.
Ben diverso è l’approccio alla conoscenza della religione, che si fonda sulla Rivelazione, di solito enunciata in uno o più Libri Sacri, o nell’estasi mistica (per i più fortunati che godono di questo privilegio). Non solo: la conoscenza che la religione ambisce a ottenere riguarda una Realtà Trascendente che è al di fuori di qualsiasi possibilità di sperimentazione. Esiste Dio? E’ uno solo oppure sono tanti? Si immischia nelle vicende umane oppure è indifferente? E’ buono? E’ onnipotente? Gli esseri umani hanno un’anima immortale che sopravvive alla morte del corpo fisico? Tutte domande che esulano completamente dall’ambito della scienza. Sia chiaro: non è sempre stato così. Per secoli le autorità religiose hanno preteso, sulla base delle proprie Sacre Scritture, di fare affermazioni anche su fatti sperimentabili e falsificabili. E spesso ne hanno rimediato tristi figuracce. Così oggi i teologi più avveduti sono consapevoli di dover limitare il proprio ambito di indagine al Trascendente.
In conclusione, oggetti di indagine differenti e metodi diversi sembrano dividere la scienza e la religione in maniera ineluttabile. Come binari che corrono paralleli e che sono destinati a non incontrarsi mai. Così, almeno, dovrebbe essere. Gli sconfinamenti, da una parte e dall’altra, producono risultati semplicemente ridicoli. Prendiamo l’esempio del creazionista ingenuo che nega l’evoluzione e che sostiene che i fossili vecchi di milioni di anni e le galassie distanti miliardi di anni-luce sono opera del demonio per indurre in tentazione i fedeli. E c’è poco da sorridere bonariamente, come se costoro fossero una minoranza di relitti del passato: tuttora decine di milioni di musulmani che leggono alla lettera il Corano la pensano così. Oppure consideriamo lo Zichichi di turno che cerca nelle conoscenze scientifiche le prove dell’esistenza di Dio… e finge di non sapere che Stephen Hawking, decisamente più autorevole di lui, si è trovato nel 1981 a un convegno in Vaticano, in udienza con Giovanni Paolo II, a pensare che le proprie teorie cosmologiche non facevano affatto comodo al Papa, perché uno spaziotempo finito e illimitato non ha bisogno di alcuna Creazione. Sul fronte opposto, ma altrettanto ridicolo, annoveriamo lo scienziato ateo militante che, sempre riempiendosi la bocca con le teorie della scienza, conclude senza scampo che Dio non esiste. Gratuitamente.
Eppure… eppure… forse questi due binari hanno almeno un paio di scambi che li costringono a incrociarsi. Il primo è nel passato. Perché il metodo scientifico si è sviluppato in Europa e non presso altre grandi civiltà, che peraltro avevano sviluppato una visione del mondo ricca e sofisticata? Il monoteismo cristiano sembra non essere estraneo a questo sviluppo culturale. L’idea che esistano leggi che descrivono la realtà e che queste leggi siano conoscibili attraverso un’indagine razionale è stata verosimilmente influenzata dall’ipotesi di un Dio creatore e ordinatore. Altrove non è andata così. Joseph Needham, per esempio, ha mostrato come il confucianesimo e il taoismo abbiano soffocato lo sviluppo del metodo scientifico in Cina.
Secondo scambio fra i binari: nel presente, quando la scienza indaga in campi delicati. Vediamo un esempio banale ma efficace. Mentre percorro un sentiero in montagna, inciampo in un sasso. Incuriosito, lo raccolgo e lo porto nel mio laboratorio. Lì lo spezzo, lo immergo in un acido, lo faccio evaporare e poi ficco il gas sviluppato in uno spettrografo di massa… insomma lo sottopongo a tutte quelle strane operazioni che effettuano di solito gli scienziati. Alla fine avrò acquisito conoscenze nuove su quel particolare sasso e potrò scrivere una dotta dissertazione scientifica, nella quale formulerò delle ipotesi sulla formazione di quel sasso e sui suoi rapporti con altri sassi che ho studiato in precedenza. Poi uscirò per cercare altri sassi da studiare e da confrontare con le mie ipotesi. Fin qui non c’è problema: sono uno scienziato, e nessun prete ha il diritto di dirmi che cosa posso o non posso fare ai sassi e quali conclusioni posso o non posso trarre dalle mie osservazioni. Ora però cambiamo scenario… Mentre percorro un sentiero in montagna, incontro una nuova specie di ranocchia che salta sul bordo di un lago alpino. Incuriosito, ne catturo un esemplare e lo porto nel mio laboratorio. Lì lo seziono senza anestesia per verificare la sua risposta al dolore e lo sventro per estrarne gli organi interni. Alla fine avrò acquisito conoscenze nuove… eccetera eccetera. E potrò scrivere una dotta dissertazione… eccetera eccetera. Ma ne ho il diritto? Ecco, qui la faccenda si fa complicata e difficile. Quando la scienza spinge la propria indagine nel mondo della vita, che è contrassegnata dall’esperienza del dolore e della morte, non può più assumere un atteggiamento pilatesco. Lo scienziato non ha più il diritto di fare spallucce e ignorare quell’insieme di convinzioni etiche che non si fondano sull’evidenza sperimentale e che esulano dalla sua competenza. Lo scienziato della vita deve quindi invitare il prete in laboratorio? Sì, anche il prete. Ma non solo lui: la riflessione etica non è appannaggio esclusivo della religione. Però questa è tutta un’altra storia…