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Il campo Yarmouk e il genocidio: i peggiori e cruenti casi del Novecento

Creato il 11 aprile 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

L’UNICEF ha paragonato la situazione del campo profughi di Yarmouk al massacro di Srebrenica: un genocidio

Bisogna immaginare  Yarmouk, otto chilometri a sud di Damasco in Siria, non come uno stereotipato campo profughi composto da tende e accampamenti precari, bensì come una vera e propria cittadina con scuole, palazzi ed edificazioni di varia natura. Il campo  nato nel 1948 con l’affluenza dei profughi della guerra arabo-israeliana  conta 18 mila abitanti, quasi tutti palestinesi. Prima degli attacchi cominciato due anni del regime di Assad, Yarmouk accoglieva 150 mila profughi.

Si sta parlando moltissimo dei fatti all’interno delle mura. ONG e istituzioni internazionali hanno cominciato ad alzare la voce, evidenziando il dramma che si sta consumando a Yarmouk: l’ONU ha espresso “profonda preoccupazione”, l’ambasciatore giordano negli Stati Uniti ha chiesto che i “civili vengano protetti”, l’UNICEF è in allarme per la carenza di cibo, acqua e medicine. Save the Children afferma che 3500 bambini sono “intrappolati”, senza via di uscita e a rischio violenze. L’opinione grida al possibile genocidio.

L’ISIS e gli alleati qaedisti del Fronte al Nusra avrebbero, dal primo aprile ad oggi, occupato l’80% del campo di Yarmouk. A contrastarli è rimasta solo qualche milizia laica palestinese e di di Hamas. Costanti sono i bombardamenti dell’aviazione filo governativa di Assad, che dal 2012 si contende il campo profughi con i miliziani ribelli. La nuova piaga dell’arrivo di ISIS e Fronte al Nusra non fa che peggiorare la situazione, già disperata e giunta a un livello tragico. Sempre l’UNICEF ha dichiarato che il campo profughi di Yarmouk sarebbe “una nuova Srebrenica”. Testimoni parlano di teste mozzate e infilzate a paletti in giro per il campo, compresa quella di un Imam vicino a Hamas, ucciso perché considerato un infedele; fosse comune scavate per contenere corpi di uomini e donne curde massacrate nei pressi di Tikrit; esecuzioni sommarie e atrocità di varia natura. I numeri non sono chiari, c’è chi parla di mille persone morte in pochi giorni, chi afferma siano molti di più.

Giovedì 9 Aprile, Ali Khamenei, “guida suprema” dell’Iran, ha condannato l’intervento militare dell’Arabia Saudita in Yemen, ricorrendo anch’esso al termine genocidio.

Identikit di un genocidio

Il forte paragone dell’UNICEF al genocidio di Srebrenica del 11 luglio 1995 è rimbalzato fra i media di tutto il globo, diventando virale in poche ore. Il messaggio pone diverse fasi di riflessione. È giusto, per quanto la situazione sia drammatica, parlare dei fatti di Yarmouk come atto di genocidio?

Bisogna partire dalla definizione semantica del termine. La voce genocidio fu coniata nel 1944 dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin. Esperto sul tema dell’olocausto armeno attuato dai turchi, Lemkin introdusse il termine in un suo libro del ’46 in cui spiegava il dominio della Germania nazista in Europa. L’enciclopedia Treccani definisce “genocidio” in questo modo:

“Grave crimine, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposizione della sterilizzazione e della prevenzione delle nascite, lo scardinamento di tutte le istituzioni sociali, politiche, religiose, culturali, la distruzione di monumenti storici e di documenti d’archivio, ecc.”

Il diritto internazionale, di fronte a un secolo – il Novecento – teatro di innumerevoli atrocità, barbarie e massacri, ha cercato da sempre di chiarire legislativamente e concettualmente i termini e le prerogative per classificare un atto criminale come genocidio. Nel 1946 l’Assemblea delle Nazione Unite giudicò il genocidio in questo modo: “Una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte”. Due anni dopo, il 9 dicembre del ’48,  nella stessa sede vennero introdotti alcuni parametri che avrebbero permesso di identificare la natura di un eventuale genocidio:

“Uno dei seguenti atti effettuato con l’intento di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, nazionale, religioso, razziale in quanto tale: uccidere membri del gruppo; causare seri danni fisici o mentali a membri del gruppo; influenzare deliberatamente le condizioni di vita del gruppo con lo scopo di portare alla sua distruzione fisica totale o parziale; imporre misure tese a prevenire le nascite all’interno del gruppo; trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo”

Nel corso degli anni diversi storici e giuristi hanno contestato tali definizioni, creando scontri concettuali sulla corretta catalogazione dei genocidi, presunti tali o non riconosciuti come essi. Ad esempio, la classificazione delle Nazioni Unite, ancora in vigore, secondo alcuni studiosi sarebbe errata perché escluderebbe i massacri e i crimini attuati secondo criteri sociali ed economici, tipici dei regimi ad ispirazione comunista: nell’Unione Sovietica di Stalin, nella Cambogia di Pol Pot e nella Cina della rivoluzione culturale di Mao. Problemi riguardanti i criteri, la semantica, i calcoli numerici e le implicazioni politiche compongono una dottrina sul genocidio vasta e scandita spesso da controversie notevoli. Ne Il Secolo dei genocidi, Bernard Bruneteau, storico e docente universitario francese, spiega le origini ottocentesche, ideologiche e storiche, del comportamento genocidario, passando in rassegna i grandi genocidi del XX secolo: l’eccidio degli Armeni da parte dell’Impero Ottomano, le liquidazione sovietiche, l’olocausto, i massacri dei khmer rossi di Pol Pot in Cambogia, la pulizia etnica attuata in Bosnia e il genocidio in Ruanda.

Il massacro degli Armeni

In Turchia il massacro degli armeni avvenne in due momenti diversi: a cavallo tra il 1894-1896 per mano del sultano ottomano Abdul-Hamid II e nel biennio 1915-1916 ad opera del governo dei Giovani Turchi, con la supervisione di alcune pattuglie degli alleati tedeschi. Il termine genocidio viene associato sopratutto al secondo evento, commemorato ogni 24 Aprile. Gli Armeni vennero presi di mira per le loro intenzioni indipendentiste e i loro rapporti politici-economici con Francia e Russia. Non si hanno cifre precise, ma si calcola che circa 2 milioni di persone siano stati ammazzate in quegli anni. La Turchia ancora oggi non riconosce tale macchia del passato, non permettendo che se ne parli, avendo imposto un vero e proprio tabù tematico sul proprio territorio. In Francia negare il genocidio armeno è vero e proprio reato. Alcuni mesi fa Barack Obama affrontò il discorso, creando forti malesseri tra la diplomazia turca. In ballo ci sarebbe l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. L’Ue negli ultimi anni ha imposto una condizione: l’annessione dovrà essere preceduta da un mea culpa ufficiale del genocidio.

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Photo credit: Photo by Near East Relief. / Foter / Public Domain Mark 1.0

L’olocausto armeno, considerato uno fra i più dimenticati della storia, ha creato polemiche anche tra lo stato di Ankara e quello Vaticano, sopratutto durante l’insediamento di Joseph Ratzinger. Nel 2012 nell’Archivio Segreto Vaticano emersero alcune testimonianze di una crudeltà inaudita. I dispacci vennero raccolti da Marko Jacov, studioso polacco che ne fece uso per il proprio volume La questione d’Oriente vista attraverso la tragedia armena (1894-1896). Si creò una tensione diplomatica non indifferente. Papa Benedetto XVI ricordò ad alta voce, nel giorno della commemorazione ufficiale, il genocidio armeno. Il rapporto con Ankara, già tesissimo rispetto all’atteggiamento cordiale nei confronti dei paesi islamici del suo predecessore Giovanni Paolo II, rischiò di raggiungere un punto di non ritorno. Il tutto con la pubblicazione del volume di Jacov alle porte, grazie proprio agli Archivi Vaticani. Si giunse a una fitta collaborazione fra membri della diplomazia turca e vaticana, con i primi spaventati da un nuovo sentimento anti-orientale, opposto all’Islam, che avrebbe danneggiato la Turchia e i suoi rapporti con l’Occidente e la Russia. La conclusione fu una sorta di censura da parte del Vaticano, convinta dalle richieste diplomatiche di Ankara, sulla pubblicazione del libro. L’opera fu edita dall’Accademia polacca delle scienze e delle lettere senza alcun patrocinio e collaborazione della Santa Sede, come invece si era deciso in precedenza. Sì limitò la stesura delle copie, così come i danni d’immagine alla Turchia. Un’interessante pezzo de Linkiesta spiega interamente la vicenda. Il genocidio degli Armeni, ridusse tale popolazione del 70% tramite deportazioni in campi di sterminio, carestie indotte ed esecuzioni collettive. Ad oggi 21 stati, compresa l’Italia, ne riconosco ufficialmente la natura.

Holodomor

Alla fine di ogni Novembre, il Sabato, in Ucraina si commemora l’Holodomor, la carestia che colpì il Paese a partire dal 1929 fino alla prima metà degli anni ’30. Con un totale di morti di difficile stima, ma intorno ai cinque milioni, è probabilmente il genocidio meno convenzionale perpetrato nella storia dell’uomo: uccisi attraverso la fame, gli Ucraini furono colpiti in tempo di pace, secondo la versione più accreditata dagli storiografi, dal regime sovietico. Secondo costoro Stalin, probabilmente impaurito dal movimento indipendentista ucraino dell’epoca, volontariamente razionò all’eccesso e costrinse la popolazione Ucraina alla morte attraverso politiche di forte repressione, aiutato in questo dalla possibilità di controllare capillarmente l’economia grazie alla pianificazione centralizzata tipica dell’Unione Sovietica. Altri studiosi sostengono che la carestia non fu da attribuirsi ad un piano premeditato dall’alto, ma da una serie di fattori da ricondursi alla politica di forte industrializzazione dell’URSS, a partire dal primo dei vari Piani Quinquennali che cambiò drammaticamente l’assetto produttivo ucraino, trasformandolo, come molti altri territori, da una terra di coltivatori ad una di industrie statali. L’epoca di collettivizzazione fu malamente accolta dagli Ucraini, che si ribellarono frequentemente, riducendo di fatto la produzione degli alimenti, già messa sotto stress dai piani quinquennali. Quale che sia stata la causa, l’Unione Sovietica vietò a lungo, almeno nei suoi territori e nelle sue sfere di influenza, di parlare del fatto, addirittura negando che esso fosse mai avvenuto. Nel 2003, ad un meeting delle Nazioni Unite, la Russia, di concerto con altri ventiquattro Stati, firmò un documento dando atto dell’accaduta “Grande Carestia del 1932 e 1933 in Ucraina” e condannando la colletivizzazione forzata posta in essere dal governo sovietico, non ammettendo la diretta partecipazione del regime alla carestia, ma dando la colpa alle politiche di pianificazione economica e nazionalizzazione comuniste.

La Shoah

Senza dubbio, il genocidio più sentito dal mondo Occidentale, e le cui conseguenze si palesano ancora oggi, la Shoah, o Olocausto, è stata la sistematica eliminazione degli ebrei da parte della Germania Nazista, causando tra i 5 e i 6 milioni di morti, secondo le stime ufficiali, nell’arco di un più largo desiderio di sterminare le categorie “inferiori”, che ha fatto registrare in totale circa 15 milioni di morti. Sono risaputi i metodi con i quali il genocidio è stato portato a compimento: da semplici esecuzioni fino alle deportazioni nei lager di vario tipo: dai campi di lavoro e quelli più propriamente “di sterminio”.In questo senso vale la pena spendere due parole sulla scientificità nazista utilizzata per il massacro: mai prima di quel momento, e mai in seguito, fu messo in atto un meccanismo perverso che univa scienza, superstizione e tecnologia nell’unico obiettivo di eliminare degli esseri umani, non in guerra, sul fronte esterno, e quindi attraverso l’avanzamento tecnologico in modo da avere un vantaggio sul nemico, ma sul fronte interno, nei confronti cioè di una popolazione civile che non poteva difendersi con le armi. La scienza e la sperimentazione servirono ai nazisti per teorizzare l’avanzamento tecnologico in un solo ramo del sapere: quello dell’efficiente massacro. I colpevoli principali del massacro furono giudicati e puniti a Norimberga dal 1° novembre 1945 fino all’ottobre dell’anno dopo, in quella che fu, in realtà, una violazione piuttosto grave del principio di non costituire giudici speciali, che non a caso poco dopo fu sancito nella nostra Costituzione. Si susseguirono, alla fine della guerra, processi perlopiù sommari, e impiccagioni barbare, anche nei confronti di chi, nato nel posto sbagliato al momento sbagliato, non ebbe che la scelta tra uccidere ed essere ucciso. In questo senso si palesa la ragione di coloro i quali sostengono che la storia venga scritta dai vincitori. Altri colpevoli, tuttavia, restarono impuniti, scappando in sud America o altrove. La Shoah fu sentita nella sua colpevolezza non solo dai diretti responsabili, ma da tutto il mondo occidentale, in una sorta di espiazione collettiva che culminò con il garantire al popolo ebraico una terra in cui vivere, si poteva sperare, in pace, dopo le persecuzioni. La nascita dello Stato d’Israele, però, non pose certo fine ai morti.

Il genocidio di Pol Pot in Cambogia

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Vittime del genocidio di Pol Pot in Cambogia

La Cambogia di Saloth Sar, meglio noto come Pol Pot, a cavallo tra il 1975 (anno in cui i Khmer rossi uscirono vincitori dalla guerra civile) e il 1979, fu teatro di uno dei momenti di morte più brutali della storia dell’uomo. Alle vittime per malnutrizione, carenze nel sistema medico-sanitario e lavori forzati, vanno aggiunti dai 300.000 al 1.000.000 di morti giustiziati. La maggioranza delle stime approfondite varia da 1.671.000 a 1.871.000 morti, cioè tra il 21% e il 24% della popolazione totale dell’epoca. Tra la totale indifferenza della comunità internazionale, Pol Pot inaugurò un nuovo regime figlio di una folle utopia pseudo comunista, dove la Cambogia sarebbe dovuta rinascere tramite i campi e la cultura contadina, l’estirpazione e l’epurazione, oltre che degli avversari politici, dell’apparato intellettuale del Paese. Sono tristemente noti alcuni tra i crudeli metodi e aneddoti di quei giorni: chiunque non dimostrava abilità nell’arrampicarsi su un albero veniva ammazzato all’istante, così come vennero fucilati coloro portatori di occhiali da vista, simbolo di un radicamento culturale da eliminare. Non vennero risparmiati dalla furia dei Khmer rossi neanche anziani, donne e bambini. Per uccidere i neonati, i soldati afferravano i pargoli dalle caviglie, sbattendoli ripetutamente contro gli alberi. Pol Pot negli anni dell’auto-genocidio, cambiò nome alla Cambogia in Kapouchea Democratica, a simboleggiare ancor di più le aspirazioni di un “nuovo mondo” con lui sommo vertice. Non a caso nominò il 1975 l’anno zero.

Bosnia e Srebenica

Il peggior crimine di guerra sul suolo europeo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale”, come lo definì l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, giunge al suo apice con il massacro di Srebrenica, nel quale più di 8000 persone, in una volta sola, persero la vita per la loro religione: si trattava di musulmani bosniaci. Dopo la disgregazione della Jugoslavia nel 1991, in Bosnia-Erzegovina, per questioni storiche del dominio ottomano, convivevano anime diverse. La maggioranza della popolazione era musulmana, mentre un numero di una decina di punti percentuali inferiore rappresentava coloro che si definivano serbi. Infine, qualcuno si definiva ancora jugoslavo, ed un 20% circa si riconosceva croato. Tendenzialmente, la volontà era quella di costituire uno smembramento della Bosnia-Erzegovina tra Croazia e Serbia, in particolar modo perseguendo la volontà di avere un unico Stato a difesa di tutti i serbi. In particolare, a seguito del referendum che portò la Bosnia-Erzegovina a staccarsi dalla Jugoslavia, ed il riconoscimento internazionale di essa, le forze Serbo-bosniache, supportate dal governo della Serbia al cui vertice sedeva Milosevic, insieme con l’esercito della sempre più frammentata Jugoslavia invasero la Bosnia-Erzegovina nel tentativo di rendere unico e sicuro il territorio per i serbi. Le cose precipitarono di lì a poco e a questa guerra si accompagnò la pulizia etnica dei non serbi nelle aree occupate. Coloro i quali riuscivano a scappare si muovevano verso Srebrenica, che presto divenne una sorta di santuario protetto dall’ONU. Eravamo nel 1993. Due anni dopo, le truppe serbo-bosniache entrarono in città e compirono il massacro. A differenza che nell’holodomor, qui non ci sono dubbi storiografici sui colpevoli: il Tribunale Penale dell’Aja ha emesso numerosi ordini di arresto per varie figure a diverso titolo legate al massacro di Srebrenica ed alla guerra in Bosnia. Oltre ai vari leaders serbi, le conseguenze colpirono anche chi era stato preposto alla difesa di Srebrenica, e aveva fallito. Fino ad oggi si sono riesumate circa 6.500 salme dalle fosse comuni nelle quali furono gettati i corpi di coloro che subirono su di sé la pulizia etnica di Milosevic e dei suoi.

La carneficina in Ruanda

Il 6 aprile del 1994, un aereo viene abbattuto nei cieli del Ruanda, in Africa centrale. Di ritorno da un colloquio di pace in Burundi, a bordo del velivolo c’è il Presidente ruandese di etnia hutu Juvénal Habyarimana. La morte del politico da vita a uno scontro etnico-politico che sfocerà un degli atti più sanguinari della storia del XX secolo. Vent’anni dopo scriverà Salvatore Quirico: “La morte del presidente, un hutu, fu come il segnale atteso della ennesima resa dei conti. Perché tutto era stato preparato con metodo: gli elenchi di chi doveva essere ucciso, i magazzini con le armi comprate grazie a un sollecito prestito di una banca francese (Parigi era la grande alleata degli hutu al potere), gli estremisti huti erano in attesa dell’ordine, pronti, frementi, gonfi di birra e di odio”. La fazione hutu accusa i ribelli tutsi del Fronte Patriottico, guidati da Paul Kagame, ruandese, della paternità dell’attentato. I vertici hutu cominciano ad incitare al massacro di tutti i membri appartenenti all’etnia rivale, e agli hutu moderati opposti tale cruenta risoluzione. In soli 100 giorni vennero massacrati con armi da fuoco, bastoni chiodati e machete, circa 500 mila persone. Alcune stime future conteranno fino a un milione di morti.

Alcuni giorni dopo l’inizio dei massacri, i miliziani tutsi cominciano a marciare verso la capitale Kigali. Il Governo e il personale diplomatico internazionale scappano, mentre nel resto del paese sono ancora vivi gli atti barbarici di ogni natura verso i tutsi. Questa fuga provoca un altro esodo, quello degli stessi hutu, che per pura di ripercussioni e vendetta fuggono verso i paesi limitrofi: quasi un milioni di profughi raggiungono Burundi, Tanzania, Uganda e Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo). Molti muoio di fame, calpestati dalla folla e di dissenteria. E certo che tra questi esuli si siano nascosti diversi responsabili del genocidio dei tutsi. Il genocidio viene considerato ufficialmente concluso tramite la missione umanitaria Opèration Turquoise, voluta e attuata dai francese sotto autorizzazione dell’ONU.

Il male del novecento

Al netto delle considerazioni sui parametri del genocidio, gli eventi che hanno macchiato la nostra storia di un inchiostro indelebile e color del sangue, non rientrerebbero nelle pagine di un intera enciclopedia. Dai massacri dei nativi americani, ridotti del 90%, anche a causa delle malattie importate dai conquistadores, ai milioni e milioni di morti in Africa flagellati tra conquiste europee (le politiche del re Belga Leopoldo II di inizio novecento causarono dieci milioni di morti nel solo Congo) e guerre tribali civili, in ultimo il conflitto in Darfur ancora in corso con quasi 800 mila vittime. In Asia le carneficine in Indonesia (da 500 mila a un milione le cifre stimate) di Suharto ai danni dei militanti o sostenitori del Partito comunista, il genocidio dei curdi di Saddam Hussein, la folle notte di Shabra e Chantilia in Libano, le uccisioni di massa dei tamil in Sri Lanka, le esecuzioni di massa degli indiani nei confronti dei pakistani, dei pakistani sui bangladesi e dei bangladesi sui pakistani. In Guatemala dal 1960 in poi, uno dei tanti regimi che si instaurarono in America latina, quello di Carlos Castillo Armas, causa tre decenni di guerra civili e 200 mila cadaveri. Non si trattò forse di genocidio, ma i morti per mano del generale Pinochet in Cile furono più di 3000 con centinaia di migliaia di sparizioni forzate che moltiplicano assai la cifra.

Articolo di Gabriele Ciuffreda e Giacomo Conti

Tags:Armenia,genocidio,holodomor,ONU,ruanda,Shoah,Srebrenica,URSS,yarmouk

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