Credevo che lo sfiancamento da festa fosse una conseguenza della festa stessa o, al massimo, un effetto collaterale delle mie condizioni fisiche sempre così misteriosamente altalenanti.
Mi ci sono voluti quasi cinquant’anni per capire che, invece, non è colpa della festa in se stessa, o delle aspettative che crea, ma, in ultima analisi, dei parenti; non c’è alcun dubbio.
Ciò che da giovane sopportavo con noncuranza e una certa masochistica soddisfazione, ora mi esaspera terribilmente. D’accordo, le feste comandate a casa dei genitori di mia moglie erano elettrizzanti, divertenti e incredibilmente rumorose. E il cibo abbondante e cucinato nel modo più dannoso alla salute che si possa immaginare.
L’opposto di quello che succedeva a casa mia, luogo in cui le feste comandate si ammantavano di solennità, silenzio e noia.
Ma alla fine, la novità diventa abitudine, e l’abitudine noia e poi senso di insofferenza. Passi per mio suocero che, come un Emilio Fede stalinista, storpiava il mio nome in mille modi diversi, passi per i ravioli fatti a mano da mia suocera, vere armi di distruzione di massa, e gli infiniti capricci degli innumerevoli nipoti.
Ma tutta questa confusione, le grida dei bambini, le tombole, i mercanti in fiera, i litigi fra cognati, le mille sigarette fumate sul balcone, i pettegolezzi, le piccole cattiverie, la voce roca, la sensazione di trascurare la mia famiglia per quella acquisita, i musi di mia moglie quando invece era il turno dei miei e, successivamente, quando le famiglie si sono smantellate come una vecchia ma ancora pericolosa centrale nucleare, i parenti che si infilavano nella nostra intimità familiare, sono tutte cose che mi corrodono lentamente dall’interno.
Sento come un parassita che rosicchia i muscoli, i tendini e le ossa, fino a che la sera sono sfinito, un pupazzo senza spina dorsale, una batteria irrimediabilmente scarica.
Il parente di questa pasqua è mia madre, unica sopravvissuta, la più pesante da sopportare, con tutte le sue manie, fisime e capricci da primadonna. La saga infinita delle sedie che le provocano mal di gambe, o di schiena, o che le fanno dolorare perfino la testa, si è arricchita ancora.
Dopo la marocca con braccioli, la sedia della cucina in acciaio con la seduta imbottita, le due sedie a stantuffo dello studio, l’altra, sempre a stantuffo, della camera dei ragazzi, ecco aggiungersi una vecchia sedia in legno da professore recuperata dalla scuola media qui vicino.
“Comoda?” Le chiedo.
“Una cannonata - risponde lei - anche se questo piccolo bordino rialzato mi preme proprio dietro alle gambe. Anzi, dopo un po’ fa proprio male. Guarda, si vede il segno sulle gambe?”
“No - rispondo - non si vede proprio niente, mi sa che stai giocando a fare la principessa sul pisello, ma l’età ormai è passata”.
“Ah, caro mio, se solo tu sapessi i dolori che provo! Non hai proprio idea di come soffro!” Abbocca subito lei, come se non avesse aspettato altro per tutto questo tempo.
“È meglio lasciar perdere - penso sconsolato - perché se appena glielo concedo, ci distrugge con gli infiniti dispiaceri della sua - secondo lei - sfortunata vita; i parenti cattivi, il papà morto in guerra, le ingiustizie in ufficio, le malattie, i dolori, mio padre che l’ha sempre trascurata, io che mi comporto come un insensibile bastardo... Cazzo! che ingiusta punizione la mia!”.
Chissà, forse è tutto vero. Sono un insensibile bastardo che non sopporta nessuno, tanto meno i propri genitori. E se fino a ieri, la soggezione che incuteva mio padre mi obbligava a onorare feste che lui invece disertava subito dopo pranzo per uscire di casa, oggi non sento obblighi di alcun genere. Se sopporto ancora mia madre è solo per un senso di pietà e protezione verso una vecchia ormai sola. Nulla di più.
Per questo ho sempre lavorato da solo. Non so stare in mezzo alla gente, non so vivere in comunità, non ho savoir faire, non riesco a far finta di niente quando incontro gli stronzi, non riesco a non prendere per il culo i presuntuosi, gli incapaci. Insomma non sono capace di farmi i cazzi miei, non riesco a non rispondere alle provocazioni, mi accendo come un fiammifero, come uno stupido energumeno, facendo spesso la figura dell’ignorante e del maleducato, solo perché esplodo dopo infinite provocazioni che gli altri sanno invece girare a loro favore o che, più saggiamente di me, riescono a ignorare.
Insomma, sono l’antitesi di tutti quelli che fanno un lavoro simile al mio: grafici, creativi, designer, pseudoartisti della domenica, architetti e compagnia bella. Non li sopporto, non sopporto i loro luoghi comuni, il credersi superiori, i locali che devi frequentare per essere cool, il credersi artisti solo perché tirano quattro secchiate di vernice su una tela quattro metri per tre; ho il rigetto verso i giovani creativi del salone del mobile o, peggio ancora, del controsalone, solo a sentire nominare via Tortona mi viene da vomitare.
Niente di male; basta non pensarci, non frequentarli. Già, ma come faccio a cercare lavoro senza dover trattare con gente simile? È quasi impossibile, e sentirmi trattato da imbecille solo perché non mi vesto o mi comporto da giovane artista o creativo emergente mi fa incazzare ancora di più.
Sono un cane che si morde la coda, questo lo so, ma, come lui, non so nemmeno come smettere.