Editore Ponte alle Grazie – 16 Euro Rebecca Hunt
Come ho scritto nel post della settimana scorsa, dalla biblioteca comunale avevo preso in prestito, oltre a “Il lamento del bradipo” di Sam Savage, il romanzo “Il cane nero” della scrittrice inglese esordiente Rebecca Hunt e vi avevo promesso che, se ne fosse valsa la pena, ve ne avrei parlato.
Dunque, dopo aver finito rapidamente questo strano romanzo, ero molto in dubbio se spendere il mio tempo (che qualcuno asserisce essere assai poco prezioso) per scriverne una recensione e costringere i miei quattro lettori a leggere un post la cui conclusione è, grossomodo, questa: “Il cane nero” lo consiglio a quei pochi (o tanti) che amano i libri che disquisiscono di psicologia e in cui gli animali parlano e interagiscono con gli umani.
Oddio, non è che il libro in questione sia una bufala o sia scritto male (ripeto, la Hunt è un’esordiente, quindi, tanto di cappello!) tutt’altro, il problema sta nel fatto che l’autrice racconta delle cose che tutti più o meno conosciamo e per dirle c’impiega 256 pagine, per fortuna utilizzando caratteri grandi e un’apprezzabile verve surreale.
Il suo scopo era quello di narrare una storia attinente alla “depressione”, malattia che colpisce gran parte del genere umano maschile e femminile, usando, come enunciato nella quarta di copertina, un linguaggio arguto e vivace, sfrontato, originale e divertentissimo.
Questo giudizio de “Il Guardian” è vero solo nei primi tre aggettivi: arguto, vivace, originale. Tutti gli altri sono esagerati, perché il romanzo della Hunt è tutto fuorché sfrontato e divertentissimo.
È arguto come sanno esserlo gli inglesi dotati di fine humour.
È vivace perché la prosa utilizzata permette una lettura veloce.
È originale nell’uso delle descrizioni dell’ambiente (La luce disegnava un paio di calzoncini da tennis sulla parete della stanza) e perché uno dei protagonisti del romanzo è Winston Churchill, il famoso statista inglese raccontato nel momento del suo pensionamento.
Sfrontato, non capisco dove e perché, non essendoci alcuna scena di sesso né hard né soft.
Divertentissimo, direi assolutamente no. Anzi, per tutte le 256 pagine si respira un’atmosfera appesantita da tragedie pregresse e probabilmente anche incombenti che si sveleranno solo nelle ultime pagine.
Brava, è giusto sottolinearlo, è stata Rebecca Hunt a concludere il libro in modo positivo, cioè facendo capire che con la depressione si può convivere anche tutta la vita senza arrivare al suicidio e che i più fortunati possono persino vincerla.
Come ho detto nel mio precedente post, la scelta di leggere “Il cane nero” l’avevo fatta perché anch’io, anni fa, avevo scritto un racconto con lo stesso titolo, racconto che trovate in questo blog. Nella mia operetta il cane nero non è un animale parlante, ma qualcosa di reale, fisico, che abbaia agli sconosciuti, un essere che se morde fa danni immediati e visibili e con cui, a volte, ci si scontra in battaglie epiche ma che, alla fine della guerra, diventa un amico insostituibile.
Il cane nero (cane=fedeltà, nero=aggressività) nella rappresentazione letteraria che ne ha dato Rebecca Hunt, è la terribile metafora di una malattia psicologica che nessuno vorrebbe avere e che è difficilissima, se non impossibile, da vincere.
Ecco, credo di avervi dato tutti gli spunti per decidere da soli se affrontare o meno questo romanzo.
Personalmente vi consiglio di più il mio omonimo racconto: si legge in dieci minuti e non costa nulla…
Nicola