‘La nebbia del potere’, o anche, invertendo i termini, ‘il potere della nebbia’: il nuovo libro di Marco Follini è una riflessione sull’autorità politica e le sue declinazioni – o meglio la sua decadenza a fenomeno completamente vuoto, esautorato, che sopravvive come pura ‘apparenza’, un inganno in gran parte permesso dalla qualità mediatica del sistema politico.
Partendo dal Risorgimento, Follini analizza le vicissitudini del potere in Italia nello svolgimento della prima e della seconda repubblica, fino ad arrivare alla neonata terza. La tesi dell’autore è che il nostro Paese – e non solo – abbia conosciuto un declino implacabile che l’ha portato al collasso della politica.
Il potere ‘democristiano’ della prima repubblica, “incerto, titubante, macchinoso, assai poco spavaldo”, aveva dimostrato comunque “una cura assidua del proprio elettorato e del proprio territorio”, attuata “con tutti gli strumenti che l’autorevolezza politica e i meccanismi clientalari mettevano a disposizione”, ma non priva “di certe istintive forme di sensibilità”.
Il declino inizia con il rapimento di Moro, in cui il potere prende coscienza della propria debolezza, fino ad arrivare ai primi anni novanta, segnati “dalle cronache di Tangentopoli, dall’irruzione di Bossi e Berlusconi, dalla gioiosa macchina da guerra di Occhetto”. La svolta auspicata dalla seconda repubblica e che dovrebbe consistere in una “estensione del potere del popolo rispetto al potere della politica” rivela ben preso la sua natura ambigua: “la principale forza di successione, Berlusconi, sarà a un tempo la rottura e la continuità di un certo ordine politico e del suo blocco elettorale”. E “l’eccesso dei buoni proponimenti mescolato con il difetto delle azioni incisive” produrrà come effetto l’allontanamento dell’opinione pubblica.
La politica si fa sempre più mediatica e manageriale e viene definito quel culto del leader che oggi ha raggiunto l’apice: Berlusconi, Grillo, Renzi, accomunati “da una certa mancanza di profondità e di respiro”, sono “figure diversissime tra di loro … ma tutte in qualche modo ritagliate – almeno all’apparenza – dentro l’ansia collettiva di un paese che, avendo smarrito la sua rotta, chiede, in compenso, di percorrerla più velocemente”. Ma l’atmosfera è ormai quella di un totale disincanto, di una irrimediabile sfiducia non solo da parte degli elettori ma anche dei politici nei confronti delle loro stesse possibilità: il potere “ha perso la sua voce, ha rinunciato a esprimersi”; la flebile eco che riusciamo al massimo a percepire è quella delle urla della piazza a cui cerca di assogettarsi nell’ultimo tentativo di sopravvivenza.
L’analisi – o, come la chiama lo stesso Follini, la ‘predica’ – è lucida e dimostra la competenza di un uomo che, in fin dei conti, non è “estraneo a quanto è successo” in quanto ha svolto un ruolo nella politica e nella crisi di questi anni. Proprio in base a tale considerazione ci saremmo aspettati una maggiore ammissione di responsabilità da parte dell’autore, che afferma di avere provato “insofferenza per le infinite meschinità e mediocrità” a cui ha assistito “fra tanti, troppi dignitari di Palazzo”. Una captatio benevolentiae degna del fine chiosatore che è Follini, che culmina con la riflessione: “se le persone comuni sapessero quanto di noi è solo il loro riflesso forse ci giudicherebbero con più indulgenza”.
Il giudizio finale sembra essere senza possibilità di appello, anche se l’autore lascia trasparire una lieve breccia di speranza, quasi nella convinzione che una sorta di ‘redenzione’ sia possibile, ed è un peccato che il libro sia privo di una parte propositiva: apprezziamo l’affermazione che “un paese di grande civiltà debba tornare ad ascoltare il suono dei violini”, anche per il rimando di riscatto culturale ad essa sotteso, ma l’indicazione di chi debba impugnare questi violini e di quale musica suonare avrebbe rappresentato un ulteriore, concreto spunto di riflessione.
Marco Cecchini