(già pubblicato su Lankelot)
Daniel Varujan era armeno. Anche a lui toccò il destino del suo popolo. La sua voce si spense in un grido innocente, da qualche parte in Anatolia, sulla strada che portava al deserto lungo la via della deportazione. Era una folgorante promessa della lirica armena d’inizio Novecento. Il suo Canto del pane, splendido poemetto epico-lirico in cui si sublima il legame fortissimo e strappato del popolo armeno con la propria terra, fu rocambolescamente recuperato dalle mani della polizia turca. Incompiuto, eppure perfetto. La voce di Varujan si spense in una deserta campagna, ma il suo canto trova ancora eco, ridà linfa al vincolo di una terra e della sua gente, cura la ferita; e un armeno in diaspora, fra il primo e l’ultimo verso di questo libro, trova per qualche attimo la sua patria. Patria di valori, patria letteraria.
Varujan non canta di violenze, non canta di soprusi, deportazioni o di morte. Egli canta al contrario la vita, la terra madre e generatrice, il ciclo del pane. In 30 poesie in metrica, Varujan racconta in maniera realistica la produzione e la lavorazione del pane, dall’aratura dei campi alla semina, dalla pioggia di primavera alla mietitura, dal canto della trebbia al vaglio, fino ai granai, al mulino e alla benedizione (Antasdan) del pane consacrato. È narrazione realistica in metrica, ma sotto alla superficie descrittiva si sente agitarsi un nugolo di significati simbolici, c’è il sentore d’un epica armena, d’un epica contadina che in quel legame col pane dei padri canta per contrasto la tragedia d’una gente storicamente allontanata dalla sua cifra identitaria: la terra. Un libro indispensabile per chiunque voglia conoscere la vicenda del popolo armeno nel XX secolo e coglierne da vicino l’essenza.
Varujan si siede «sull’aia, alla fresca ombra del salice» per cantare «il piacere, il vigore creatore/ che diffonde il Pane, il Pane consacrato», Alla Musa. La terra è colta nel suo aspetto femminino, grembo che genera, voce delicata che ai contadini sussurra «aspettiamo le vostre palme piene di seme/ con il silenzioso desiderio delle donne», Il richiamo delle terre. I contadini sentono «il fluido canto delle linfe», I contadini, e nello scavare il solco dell’Aratura «l’uomo…traccia il suo cammino dritto come la sua anima», L’aratura. Per un popolo cristiano nel pane si incarna anche il legame escatologico con Dio, il patto secondo il quale «in ciascuna delle spighe bianche di latte/ maturerà domani una parte del corpo di Gesù», La semina. Lungo il corso del ciclo del pane, si dipana il tempo dell’uomo che vive tenendo per mano la natura, le stagioni che scandiscono le attività, e addirittura le passioni e gli amori; il rosso dei papaveri sembra macchiare il lenzuolo giallo del campo di grano come fosse il lino della prima notte di nozze: «sorella…avvolgi del loro incendio il tuo grembiule verginale./ Nelle loro coppe delicate/ berremo i fuochi di giugno.», Papaveri. Immagini corpose, carnose al punto da far riconoscere nel pane, oltre che il corpo di Cristo, il corpo di un popolo, evidenziandone l’indispensabile vincolo fisico col frutto della terra, la fonte della vita: «Alcuni sbriciolano una spiga matura/ nel cavo della mano/ e benedicono i grani, e li masticano», La mietitura. È anche e soprattutto nella benedizione e nelle protezione divina che la gente armena trova la continuità del rapporto con la terra, la Vergine è «santa protrettrice delle terre dei miei padri/…più i miei granai saranno colmi, più le fiaccole/ daranno luce al [suo] altare», Croce di spighe. Si celebra l’innocenza del lavoro rurale, la purezza di chi nasce benedetto dal patto fra uomo e Dio, attraverso il rispetto del ciclo imposto dalla natura e dalle stelle. Da lì prende voce il canto del poeta che si sente un dio «Pan delle aie» e si riconosce figlio d’una notte d’amore sotto il cielo di giugno, dopo il lavoro nei campi: «E così, avendo dormito un giorno sotto lo sfavillìo del cielo,/ i miei genitori contadini mi concepirono con tenerezza,/ mi concepirono fissando lassù i loro occhi buoni/ sulla più grande Stella, sulla Fiamma più splendente», Notte sull’aia. Ogni elemento della vita rurale può rivestirsi d’una simbologia sacra, per cui persino l’abbeveratoio «nel mistero dell’ombra/ diresti che sia un limpido battistero». E nella ritualità trova respiro anche il legame familiare, la trasmissione di generazione in generazioe del sapere, ciò che rende tale un popolo: «Un pugno di grano nel tuo palmo/ lascia che io metta, valoroso figlio mio», Benedizione.
Da qualche parte Kapuściński deve aver detto che il più grande genocidio che si è compiuto nel Novecento è stato quello della classe contadina. In questo senso il genocidio armeno può essere scelto come emblema di tale tragedia, del legame reciso tra le persone e la terra. Varujan compose questo commovente ciclo lirico, questo canto di vita che la Storia ha rivestito d’un velo funebre, senza nominare mai la parola “armeno” né tantomeno la parola “genocidio”. Antonia Arslan, grazie alla quale in Italia sappiamo qualche cosa in più sul destino del popolo armeno, traduce con sapienza i versi metrici di questo poeta che aveva amato Leopardi e Carducci, che riecheggia il Virgilio delle Georgiche, e che, mentre una storia crudele lo condannava ad essere deportato verso i deserti aridi e verso la dimenticanza, portava con sé in tasca un canto che celebra l’abbondanza e il legame con la Natura, la trasmissione del sapere e la sacralità del lavoro umano.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE: Daniel Varujan, Il canto del pane, pp.138, € 13.50, Guerini e Associati, Milano, prima ed. 1992, quinta edizione 2004. Traduzione e cura di Antonia Arslan.
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