Paolo Virzì, bravo regista del film Il capitale umano, ci aveva abituati, nel descrivere gli ambienti e i personaggi dei suoi racconti filmici, a profili sociali piuttosto bassi. Da La bella vita a Tutti i santi giorni aveva narrato un microcosmo dal respiro poco ampio, fatto di persone comuni alle prese con quotidianità riconoscibili, proprio per la presenza di situazioni e frustrazioni e problemi vissuti in pratica da tutti noi spettatori. Ne Il capitale umano, quella che in linguaggio tecnico politico verrebbe definita come la base è ridisegnata sull’esempio dei precedenti film, ma la variabile è costituita dall’occupazione della scena di un nuovo, nuovissimo, substrato sociale, coloro che ambiscono ad arricchirsi e gli squali della finanza italioti. Dunque, via la Livorno d’origine, via i luoghi di vacanza alternativi, via la Roma odiata e amata, via i call center e la Versilia, ecco che compare sulla scena la Brianza, luogo principe degli affari, degli sghei. Lì dove un’attrice dilettante – ma con ideali intatti, secondo il suo trepido cuore – ha modo di annoiarsi e chiede al ricchissimo marito arrogante e spregiudicato – un Gordon Gekko brianzolo in versione riveduta e corretta – di comprarle un teatro per mostrare a se stessa di essere ancora uno spirito bello; la Brianza di un immobiliarista viscido e traffichino, che spera in una promozione sociale facendo affidamento sulle conoscenze della figlia; i figli della ricca Brianza annoiati e ubriaconi, persi tra scuole private e feste private, privati per sempre del senso della misura e dell’umiltà, preoccupati solo dell’apparire, degni figli dei loro genitori di schiatta danarosa. E poi intorno la psicologa del SIM, il ragazzo emarginato ed ex suicida, il cameriere precario alle dipendenze di un padrone di colore che del film è il fulcro centrale, dal quale dipartono le storie degli altri raccontate secondo l’originale punto di vista del regista. Sono le donne a raccontare la storia oscura di un incidente, storia che divide le scene in capitoli come un libro, e affronta, secondo il punto di vista di ognuna di loro, lo stesso arco temporale ma con una visione parallela e distante, racconto corale con dissonanze, viziato dai pregiudizi di casta. E’ il cameriere ad essere il capitale umano, colui che determina i parametri sociali ed economici della sua classe, quella classe accantonata parzialmente dal regista, ma decantata nelle altre opere. Perché l’onestà dei ricchi del titolo del post? Per il semplice motivo che i ricchi, nella loro arroganza e nel disprezzo per gli altri, sono gli unici a mantenere una condotta onesta e coerente, pescecani corrotti, che non hanno nulla da temere. Bellissime prove d’attore di Fabrizio Bentivoglio, irriconoscibile Dino Ossola immobiliarista, che nell’aspetto – squallido, in verità – e nella dizione fa pensare, curiosamente, ad uno dei personaggi strampalati di Giacomo Poretti del famoso trio. Fabrizio Gifuni è Giovanni Gekko Bernaschi, con physique du rôle- anche in versione nude look – giusto per il personaggio; Valeria Bruni Tedeschi è madame Bernaschi, di professione dibattuta. Un bel film, da vedere.
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