di
Maria Frasson
(puntate precedenti: I, II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X)
PAVIA
Io ero arrivata a Pavia – come dissi – il primo marzo di quell’anno. La città mi era sconosciuta, e poiché mi sentivo estranea ai colleghi e mi trovavo a disagio nei viavai dell’albergo, andai, memore del mio “Sacro Cuore” di Padova, a chiedere provvisoriamente asilo ad un pensionato universitario annesso ad un collegio.
Mi fecero attendere in un salotto, dove mi aspettavo di incontrarmi con un’arcigna, anziana direttrice. Arrivò una giovane, su per giù mia coetanea; “La direttrice?” chiesi. “Sono io” fu la risposta. Immediata simpatia reciproca. Le esposi il mio caso: la conversazione si protrasse per più di due ore, e alla fine eravamo (e restammo) amiche. Oltre a Giuliana – la direttrice – al pensionato incontrai un’altra, ancora più cara amica, una sarda: Carmina, allora assistente del Prof. Jucci di Zoologia, più tardi cattedrattica lei pure, a Sassari. Due amiche, subito: la vita mi sorrise, era come trovare il ramo dorato tra le fronde scure, nell’incerta luce dell’alba.
Intanto cercavo casa. Quante strade dovetti percorrere, in quel marzo piovoso, nella città sconosciuta! Trovai finalmente la dimora. Era una vecchia casa dall’aspetto civile, ma tanto vecchia e in tali condizioni d’abbandono, che dovetti lavorare molto per rendere accogliente quella che doveva divenire la nostra prima casa di sposi. Due anni dopo ci trasferimmo in un’altra migliore, con le finestre aperte sull’ampia Piazza Ghislieri e sul campanile della Chiesa di S. Francesco, inghirlandato ad ogni primavera dal garrulo stridio delle rondini. E fu questa che ho sempre nel cuore perché accolse per 12 anni le vicende centrali della nostra vita: le più intensamente vissute.
IL REDUCE
Il 31 ottobre di quello stesso 1936 Mario finalmente arrivò a casa. Era in perfetta forma: stava benissimo. Allora cominciò veramente la nostra serena vita coniugale.
Lui aveva ripreso con accanita assiduita i suoi studi che concluse in un anno: e fu un record. Io insegnavo e davo una mano all’energica attività di mia madre nelle mansioni domestiche. E, con indicibile gioia, aspettavo – finalmente – un figlio. Lo raccontavo a tutti – forse con una certa ingenuità – tanto ero felice. Stavo bene di salute, e i nostri amici che venivano a trovarci dicevano che la gravidanza mi conferiva. La mia nuova conformazione aerodinamica non mi impediva né le lunghe passeggiate dopo una giornata di lavoro e neppure le abituali – brevi – escursioni in montagna, che diventavano pericolose nelle discese, tanto che Mario doveva sempre frenarmi perché il mio dolcissimo peso non mi facesse rotolare a valle.
Lo sguardo sorridente che i due genitori rivolgono insieme alla loro creatura, quando viene ad essi presentata per la prima volta, non si può descrivere: supera il cerchio dell’esperienza umana chiuso tra la nascita e la morte: appartiene alla metafìsica. Essi sono vagamente coscienti di attuare il disegno del Creatore che ha modellato la concavità della donna perché accogliesse in sé dall’estroversione dell’uomo il seme della vita, nell’unione del reciproco donarsi.
Così ci hai fatti tu, o Signore.
Tu sei l’Amore, noi – transitori essere umani – siamo per tuo dono partecipi, e oso dire anche protagonisti della collaborazione che Tu vuoi da noi per attuare il Regno nell’armonia universale, del moto che tende verso l’Uno. Il sesso come mera ricerca del piacere è trasgressione di una legge sacra scritta in noi, perché infrange quest’armonia che si realizza nell’amore dei due mentre vogliono farsi uno. Adamo senza Eva è solo potenzialità, Eva senza Adamo è un nido vuoto: nella loro intima fusione invece c’è tutta la tensione verso qualcosa (o Qualcuno) che ci supera. E quando poi Tu hai acceso nel nostro amore la scintilla dirompente del concepimento, il tuo dono ci rivela il mistero del tuo amore. Allora l’esperienza della maternità e della paternità si manifesta come uno stato di grazia che non può non toccare il profondo del cuore senza farne traboccare un’intensa commozione.
Scrigno di tenerezza e di trepidazione, ogni bambino che nasce chiede oltre ad un sorriso di gioia, anche una benedizione. Questo era l’uso di Roma, in cui ogni neonato appena presentato al padre, veniva da lui sollevato verso l’alto perché lo benedicessero gli dei.
Arrivò un bei mattino di settembre una bambina: Carla. Tre giorni dopo la nascita, come si usava allora nelle nostre famiglie, la nostra piccola figlia fu portata al fonte battesimale. La chiesa era vicinissima. Io ricordo che rimasi sola a casa. E quando sentii il suono gioioso delle campane che mi entrava dalla finestra della camera da letto spalancata sull’azzurro, piansi copiose lacrime di gioia, pensando che la vita non è soltanto dolore.
La bambina era bella: superava il peso normale alla nascita, e si dimostrò subito vivacissima, in continuo movimento della braccia e delle gambe: segno di grande vitalità. Dimostrò molto presto di riconoscere la madre col suo primo sorriso: altra indimenticabile commozione – inutile dirlo – fino alle lacrime. La mandavo fuori tutti i giorni in carrozzina, per lo più lungo il viale che fiancheggiava la mia scuola verso il Ticino, e un giorno, entrando in classe, trovai con stupore tutti gli alunni di IVa affacciati ai fìnestroni per vedere passare la carrozzina, per poi sentirmi dire da loro: “Vede, Signora, quanti ammiratori ha già sua figlia?”. Era vero: mieteva grandi successi, specialmente tra le mie colleghe quasi tutte anziane o senza figli, e anche fra gli amici di Mario, tutti scapoli, e sopra tutto fra i vicini di casa.
Inutile dire quanto ne gioisse mia madre, la quale ebbe sempre per Carla una predilezione che mai riuscì a dissimulare.
Mario poi se la prendeva in braccio e cantava e ballava (mai più visto fare con la altre due: ma i tempi erano ben cambiati!), mentre la piccola dimostrava una grande gioia e si dimenava come se volesse ballare anche lei, tanto che la chiamavamo “squassacúa”: nome mantovano di un grazioso uccellino per il suo caratteristico modo di camminare. Quando cominciò a stare ritta sulle gambette sode, la mettevamo sul terrazzino accanto ad una gabbia di canarini a cui stava appoggiata senza staccarsene ed erano trilli e grida di gioia degli uni e dell’altra: due felicità che si intendevano tra loro.
Intanto Mario era a Parigi: aveva vinto una borsa di studio di perfezionamento all’Istituto Curie e frequentava contemporaneamente la Maternité Pinard. Era soddisfatto delle sue ricerche anche se lo trattenevano lontano da casa: mai però per più di due mesi di seguito. Tornava a casa per Natale e per Pasqua e intanto la bambina cresceva e aveva imparato a dire: “Papà è a Paris”.
Venne il termine dell’anno accademico e non tardò la nomina di Assistente alla Clinica Universitaria di Pavia – Reparto Ostetricia e Ginecologia.
Il rettore del Ghislieri, Prof. Ciapessoni (il nostro angelo custode), al quale al mio primo arrivo a Pavia mi ero subito presentata mentre Mario era in Africa, mi aveva detto: “Guardi che suo marito ha del talento; dovrà assolutamente sfruttarlo, continuando gli studi dopo la laurea”. Già: era quello che desideravo ad ogni costo, e non mi pareva vero infatti che li dovesse e li potesse continuare, prima per la specializzazione, poi per la libera docenza. Così avvenne. Ma quante visite feci al suo maestro, il prof. Vercesi, per portargli i saluti del “guerriero”, difensore della patria in armi, facendo scivolare il discorso sulle mie speranze rivolte in futuro alla libera docenza. Per ottenere quest’ultima occorrevano titoli, i quali consistevano nelle pubblicazioni che Mario sfornava via via in discreto numero e che io chiamavo “i miei gioielli” mentre via via prosciugavano i nostri magri risparmi. La Vanna, che divertiva con le sue uscite le amiche vicine di casa e la sua amatissima maestra, nei giorni in cui Mario era a Roma agli esami per la docenza, disse alla Lina: “Speriamo che il papa sia promosso, altrimenti non ci resta altro che buttarci tutti dalla finestra”.
Eppure non ci pesava affatto la nostra “sorella povertà”. Ci concedevamo anche dei lussi, come il cinema o il teatro pomeridiani coi biglietti ridotti “per militari e ragazzi”: ci si sedeva sulle panche. Oppure andavamo qualche volta – in terza classe – fino a Milano ad ammirare le vetrine dei negozi. Era un godimento.
Il più grande fu, quando Carla già camminava da sola, l’acquisto – a Milano – del suo primo paio di scarpe eleganti, anzi elegantissime. La bambina non faceva che ammirarsele correndo su e giù per il largo marciapiede davanti al negozio. Grande gioia, divisa in tre.
(continua…)