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Il Capitano Mario (XVI)

Da Fabry2010

di
Maria Frasson

(puntate precedenti: I, II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XIV, XV)

L’AVVENIMENTO DECISIVO

Fu infatti in quei fatidici mesi autunnali del 1942 che si verificò quella svolta decisiva la quale doveva rovesciare definitivamente le sorti del conflitto. La battaglia di Stalingrado si portò via con sé la vittoria, la gloria, le ultime speranze e sopra tutto 300 mila uomini tra morti e dispersi da entrambe le parti in conflitto. Fu una spaventosa tragedia, a cui si aggiunse l’arresto definitivo delle truppe dell’Asse a El Alamein sulle coste dell’Africa settentrionale, mentre gli Inglesi al Nord Europa resistevano disperatamente ai bombardamenti cosiddetti a tappeto che distruggevano le loro città industriali, e gli Americani stavano per entrare in azione.

Ma i Tedeschi non si arrendevano e non si arresero all’accerchiamento di Stalingrado da parte di 22 nuove divisioni sovietiche. Avevano l’ordine di resistere e resistettero infatti per oltre due mesi e mezzo. Di questa enorme, inutile carneficina avevamo notizie da qualcuno dei nostri alpini superstiti o da altre vittime dello stesso destino.

Messaggi senza speranza da parte di chi sapeva di dover morire: spezzavano il cuore. Eppure destava stupore e un’indefinibile pietà la loro tristezza senza ribellione, senza disperazione.
Una lettera era di un maggiore che scriveva alla sua bambina: “Osservo questa margherita che rabbrividisce al vento e penso al miracolo della vita”. Un’altra era di un ragazzo: “Sta per venire la primavera, compio vent’anni e penso che dovrò morire mentre la natura mi sorride, mentre sento cantare un uccello e mi sfiora l’umida brezza”.

Forse i nostri giovani non sanno, eppure come vorrei che meditassero su questi avvenimenti e che riuscissero a cogliere, attraverso l’ombra tuttora dilagante dell’odio tra fratelli, la luce dell’umana pietà.

Alla resa di Stalingrado seguì quella drammatica ritirata lungo le rive del Don, di cui rimane testimonianza in qualche fotografia: lunga fila, sempre più assottigliata di migliaia di soldati stanchi laceri affranti: piccoli puntini neri sulla bianca immensità della neve: immagine sconsolata di tutta la sconsolata miseria del nostro ineluttabile destino. Ci sentivamo come avvolti da un turbine al quale era quasi impossibile contrapporre la volontà di resistere aggrappandosi a qualche sia pur vaga speranza.

La storia dell’uomo procede certamente verso un fine ultimo che non potrà mancare (non diciamo infatti, come Gesù ci ha insegnato: “Venga il Tuo regno”?), ma quanto difficile è il nostro cammino umano!

Anche Mario dalla Grecia era triste. Mi diceva di non badare alla tristezza che non riusciva a dissimulare, ma la sua tristezza era anche la mia: non poteva essere diversamente.

Gli parlavo delle bambine per consolarlo: la piccola era sempre più monella, la più grande sempre divertita e plaudente. Non riuscivo a rimproverarle perché se sgridavo la piccola, la grande piangeva: dovevo arrendermi. Un giorno che la Vanna si era appropriata di tutti gli spazzolini da denti, forse affascinata dai loro vari colori, le dicevo in tono molto severo: “Non sono giocattoli”, subito la Carla pronta alla difesa: “Ma mamma, i suoi occhi li vedono come giocattoli!”. Non piangevano mai: giocavano, correvano, cantavano. Un giorno sentii un gran pianto, di entrambe. La Vanna si era infilata un gessetto nel naso. Dovetti portarla dal medico che subito glielo tolse con una pinza. L’anno dopo, saltando giù dal letto, si ruppe la clavicola, ma Mario era tornato e gliela portai, in braccio, sfidando la calca del treno, con la paura che la toccassero. Poi all’ospedale, mentre la medicavano, pianse sul serio, mentre io mi sentivo svenire.

Diceva che i bambini cattivi erano i più belli: sottile ritorsione contro i miei rimproveri, perché si sentiva dire da tutti che era così bella (quantunque non ne fosse ambiziosa): persino la Carla si esprimeva così: “La Vanna ha tanto giocato con la palla in cortile ed era così felice che pareva un fiore”. Poesia dell’infanzia! Erano davvero felici e io ne gioivo con un’intima commozione vedendo che mi correvano incontro, seguite da mia madre, sul viale della stazione quando, alla ripresa delle scuole, ritornavo a Rivanazzano da Pavia. E ringraziavo Dio di poterle ancora una volta stringere fra le braccia.

In quell’autunno erano ripresi i bombardamenti sempre più feroci sulle città, specialmente su Milano eTorino e non su obiettivi militari, ma sulla gente che fuggiva terrorizzata verso la campagna ogni notte in cui non si sentisse protetta dalla nebbia o dalla pioggia. A Pavia sentivamo il rombo degli aerei che ci sorvolavano in vasti giri di esplorazione, poi la pioggia delle bombe come una cascata detonante in un rombo lontano e quando uscivamo dal rifugio al cessato allarme vedevamo gli incendi laggiù in un cielo rosso di fiamma come se stesse sorgendo l’aurora.

La gente vi si era abituata e diceva: “A Pavia i vegnan no”, ignorando ottimisticamente quello che doveva avvenire più tardi. Io pensavo a Mario lontano e mi chiedevo fino a quando, ma sapevo che la mamma e le bambine erano al sicuro e calcolavo i giorni che mi separavano da loro. Giorni molto intensi in cui dovevamo concentrare in tempi brevi lo svolgimento dei programmi spesso interrotti da lunghe vacanze. Allora, quando raggiungevo la famigliola, la notte nel silenzio della campagna punteggiato dal canto dei grilli, com’era distensiva! Ed era distensiva la vita stessa laggiù, nonostante che mi portassi sempre molto lavoro da sbrigare per la scuola. Ma avevo tempo di occuparmi delle bambine e di scrivere quasi quotidianamente a Mario. “Occupationum agmen extenditur” gli dicevo, descrivendogli la nostra vita.

Fu in un fine settimana, tra gli ultimi giorni di novembre e i primi di dicembre di quel drammatico 1942 che, arrivata da Pavia, trovai la Carla febbricitante. Pareva un lieve malessere, comune ai bambini, collegato a un po’ di tosse: era sufficiente per impensierirmi. Mia madre mi rassicurò: era sempre stata bene. Ma poi tossì tutta la notte. Scottava: aveva la broncopolmonite. Era prostrata, respirava affannosamente e, con uno sguardo triste, mi diceva: “Non vai via, vero mamma?” Parole che mi penetravano dentro con una trafittura profonda. Ero forse nella situazione peggiore di tutta la mia vita. Il volere della Provvidenza mi fece trovare un medico premurosissimo che veniva due volte al giorno per rassicurarmi e incoraggiarmi, dicendomi che il caso non era grave. La curò coi sulfamidici con esito positivo e io potei scrivere a Mario raccontandogli la brutta vicenda, quando il peggio era passato e la bambina stava meglio, chiedendogli scusa di non avergli mandato un telegramma per non farlo soffrire inutilmente tutto quello che avevo sofferto io. Dovetti tenere la piccola chiusa in camera per un certo tempo perché, in quella casa così scomoda e così mal riparata, non prendesse freddo, ma le mie ansie erano compensate dal sollievo di vederla rifiorire di giorno in giorno. “Torna a fiorir la rosa…”: impossibile (mi perdoni il mio unico lettore) non sentirsi rinascere dentro i ricordi letterari e tra questi l’ode, che ritengo molto bella, del “mio” (dimenticato) Parini, così densa di contenuto stupendo, e così sentita da chi – come me – ha sempre cercato, per anni, di educare i giovani.

Egli verrà

Intanto si avvicinava il Natale. E laggiù accanto al “Gran Chirone, il qual nudrì Achille” e a “Tetide che udiva” e “a la fera divina plaudìa dalla marina”, Mario pensava alla famiglia alla casa alla pace come noi pensavamo a lui al sogno della famiglia riunita alla casa alla pace. E in questi giorni specialmente si faceva più acuta la nostalgia.

Nostalgia: che è di tutti gli uomini e di tutti i tempi: dei luoghi, degli anni, degli affetti perduti, che è in fondo – inconsapevole – infinita, nostalgia di Dio.

Avevamo avuto una vaga speranza di una licenza per Natale, che giorno per giorno, andava sfumando. Lo capivamo sopra tutto dai frequenti ritardi delle sue lettere che arrivavano, anche spesso a tre o quattro per volta, ma a distanza di otto o dieci giorni non privi di inquietudine e di ansia, come sempre. Il motivo era di solito lo spostamento dell’ospedale: infatti cambiava il numero. Il resto la censura lo lasciava solo intuire. Era la prima volta che avremmo trascorso il Natale divisi, “ma questo – diceva – non avrebbe dovuto essere motivo di ulteriore tristezza. Due anni erano passati così ed era questa pur sempre una festa religiosa che avrebbe rinnovato in noi la fiducia nella Provvidenza, nell’attesa ulteriormente prolungata”.

Le bambine stavano bene ed erano allegre, mentre si aspettavano in regalo dai nonni un presepio, davanti al quale avrebbero pregato Gesù Bambino per il loro papà lontano. Io facevo imparare loro questi versi (mi pare, di Govoni):
“Egli verrà:
Fin che una madre pianga
e un innocente preghi
fin che sui monti
ci sarà la neve
e ci sarà un pastore”.

(continua…)



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