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Il Capitano Mario (XXII)

Creato il 24 ottobre 2010 da Fabry2010

di
Maria Frasson

(puntate precedenti: I, II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XIV, XV, XVI, XVII, XVIII, XIX, XX, XXI)


Cronache famigliari


Avvicinandosi l’autunno del 1943, si pensò di fare rientrare in città le bambine con mia madre: ce lo suggeriva l’opportunità della stagione e il conseguente diradarsi, sia pur temporaneo, dei bombardamenti, che a Pavia avevamo fino allora potuto evitare. “A Pavia i vegnan no” diceva la gente: troppo presto per credervi. Confidavamo sopra tutto nella nebbia, la fitta nebbia padana che io non avevo mai tanto amata, né tanto desiderata come allora. Lo stesso dicasi della pioggia: quelle uggiose giornate autunnali che nemmero per un’ora lasciavano intravvedere un raggio di sole, erano salutate così (in rito ebraico): “Ti ringraziamo, Signore, che ci hai mandato la pioggia”.
La Carla era iscritta alla Ia elementare ed era fiera della sua cartella e dei suoi libri. Veniva con me a quella scuola che era contigua alla mia, ma se c’era il sole la lasciavo a casa per evitarle la ressa dell’accesso al rifugio in caso di allarme aereo e mi facevo dare i compiti da eseguire a casa sotto la mia guida. Di questa in realtà non aveva bisogno perché era coscienziosa, scrupolosissima: anche la sua brava maestra lo riconosceva, sempre con grandi lodi. Per Natale aveva già letto tutto il libro di testo, soffermandosi su quella pagina che le piaceva particolarmente e cominciava così: “È Natale, è Natale: una stella, un presepe…” La ripeteva ad alta voce di continuo, entusiasta, forse memore della tristezza vissuta nelle stesse precedenti festività: suo padre l’ascoltava e, con divertita ironia, faceva i gesti di chi dirige un’orchestra.

Al sabato, poichè era il “sabato fascista” si doveva tutti andare a scuola in divisa, lei quella della “piccola italiana”: camicetta bianca, gonnellina nera. Io, naturalmente odiavo quella di orbace, mentre la bambina quando la indossò per la prima volta ne fu così fiera e compiaciuta che suo padre dovette farle la fotografia.

Tuttavia mi confessò molto più tardi che rimase molto stupita e alquanto delusa dai commenti ironici di tutta la famiglia che non l’aveva presa sul serio. Allora non disse nulla.


Portavo fuori le bambine tutti i giorni perché non perdessero i benefici della vita all’aperto che avevano goduto lungamente in campagna, e anche perché conoscessero la loro città, di cui cercavo, come potevo, di far loro apprezzare la bellezza. I miei amici, incontrandomi, mi chiamavano il portampolle perché me le tenevo una per parte, le loro manine strette tra le mie, come per rifarmi dei giorni passati senza di loro. Le portavo anche in casa di quei miei amici che mi erano stati tanto fraternamente vicini quando Mario era in guerra. Sopra tutto due anziani professori, coniugi senza figli, che amavano tanto le mie bambine. Quante fotografie conservo – sopra tutto della Carla – fatte da lui che aveva la passione delle macchine fotografiche! E ne possedeva tredici. Io col suo aiuto ne comperai una per Mario che divenne in breve tempo un discreto fotografo. Oggi, in questa nostra società consumistica non c’è chi non possieda una macchina fotografica e non la bistratti, senza accorgersi di oltraggiare un’arte la quale può parlare allo spirito, come la musica e la pitture e le altre che un tempo si chiamavano “belle arti”. Così, sempre più si appiattisce la cultura.

Era Natale, un Natale povero, di guerra, eppure c’era nell’aria una, sia pur tenue, sommessamente rinnovata speranza, come se passasse sopra di noi il ventilare lieve di grandi ali bianche, precluse ai nostri occhi, come ai nostri orecchi era precluso il canto degli angeli, ma le chiese erano gremite come non mai e le preghiere si facevano più intense.

Mario mi regalò una radio molto sciccosa, col giradischi. La televisione non esisteva ancora, ma i giradischi rappresentavano l’ultima perfezione della tecnica rispetto a quei grandi grammofoni a forma di tromba che erano stati la delizia di noi ragazzi, specialmente per chi non sapeva suonare il pianoforte. Carla imparò così presto ad amare la buona musica, anche in chiesa, alla messa cantata, che ascoltava intenta e immobile.


Il 1944


Venne l’anno 1944, il peggiore. Tornò la primavera e col sole e con le rondini tornarono – sempre più frequenti giorno e notte – le bombe sulle città le stragi i lutti e gli scontri armati sulle montagne tra nazifascisti e partigiani che scesero in piccoli nuclei in località isolate anche in pianura. Aumentavano i disagi e il temuto suono delle sirene e anche il rombo degli aerei che sorvolavano la nostra città, dirigendosi poi per lo più verso altri obiettivi più vicini a Milano.

Sennonché una mattina, mentre uscivamo dalla scuola, a mezzogiorno, un aereo solitario, di cui l’antiaerea non aveva fatto in tempo a dare l’allarme, sganciò una bomba su una casa della periferia cosiddetta popolare, in cui abitavano i dipendenti del Comune, un enorme palazzo disposto in quadrato intorno ad un grande cortile.

Disgrazia volle che appunto nel cortile si fossero attardati a giocare, all’uscita dalla scuola o dall’asilo, dei bambini: il cortile centrale fece da imbuto, accrescendo l’effetto della deflagrazione che uccise dieci bambini. Lo si seppe subito in città e poichè proprio là abitava la mia domestica, la Maria, a cui ero molto affezionata, corsi subito là, in cerca di lei.

Non la trovai, perché tutto il palazzo era stato fatto sgombrare. C’era una quantità di gente trattenuta dai poliziotti, che dovetti supplicare insistentemente di lasciarmi passare e salii con fatica su per delle scale orribilmente sconnesse. Il palazzo era in piedi ma gli interni erano squarciati, con porte e finestre sbriciolati e tutto tappezzato da vetri: non c’era nessuno. Il silenzio dopo la tragedia. Trovai poi la Maria fuori, fortunatamente incolume, mentre parecchie altre persone erano state portate all’ospedale coi vetri sbriciolati che gli si erano dolorosamente conficcati nelle carni. Questa è la guerra.

Non avevo mai visto tanta gente il giorno dopo nella nostra grande chiesa di San Francesco, assiepata intorno a quelle dieci piccole bare bianche. Il Parroco le benedisse con l’incenso, poi, quando ebbe cominciato a parlare, la voce gli si spezzò in un singhiozzo che gli impedì di proseguire: risalì all’altare in silenzio e riprese il rito. Tutti – muti – piangevano. Mistero del dolore: anche Gesù ha pianto del nostro pianto umano e non ci ha detto il perché. Comunque Lui solo lo sa.

La primavera portava con sé, squarciando a tratti le nubi, qualche folata di quelle speranze che si erano tante volte rinnovate, non disgiunte tuttavia dalla coscienza di dover affrontare ogni giorno, senza mai perdersi d’animo, nuove durissime lotte, nuovi dolorosi sacrifici. Questo valeva specialmente per quei partigiani che ancora rimanevano isolati sulle montagne, dove avevano trascorso un assai duro inverno tra la neve spesso nei loro bivacchi, cantando per farsi coraggio quella canzone che divenne famosa: “Fischia il vento / urla la bufera / scarpe rotte / eppur bisogna andar…” ecc. In compenso le formazioni partigiane divenivano sempre meglio organizzate, sempre più numerose. Parri era andato da tempo ad incontrarsi in Svizzera con i capi di stato maggiore militare alleati per chiedere aiuti: armi sopra tutto e munizioni d’ogni sorta che venivano paracadutate in località segnalate dai servizi segreti. Le notizie più urgenti di interesse militare erano radiotrasmesse e segnalavano gli spostamenti di truppe nazifasciste, le sistemazioni difensive dei partigiani, gli effetti dei bombardamenti alleati sugli obiettivi militari e ogni volta che questi mancavano di precisione producendo danni e vittime civili, le segnalazioni erano immediate con la pressante raccomandazione che i successivi interventi divenissero più precisi e responsabili per evitare vittime innocenti. Era chiaro quanto queste ultime pesassero sul cuore degli informatori se avevano quel senso di responsabilità che li manteneva in uno stato doloroso di continua tensione.

Il servizio di informazioni era compiuto sempre più dalle donne che portavano ordini da una città all’altra, da un casolare a una sede di comando, da una postazione a un carcere, in bicicletta o nascoste in treno merci o su carri agricoli. Intrepide coraggiose e generose, erano parte integrante di un esercito in guerra, affrontavano pericoli di ogni sorta ed erano spesso catturate, imprigionate, uccise. Di alcune di loro si seppe soltanto il nome.

Una sera uscii con Mario per la nostra consueta passeggiatina. Per non dare nell’occhio, ci trovammo coi nostri amici della clinica neurologica in una viuzza del centro, pochissimo frequentata dove c’era una piccola modesta trattoria nella quale della gente altrettanto modesta giocava alle carte. Ci venne incontro la “Gigetta”: non so se questo fosse il suo vero nome o quello di battaglia. So soltanto che era la figlia del proprietario del locale. Era la primavera avanzata e faceva caldo. La Gigetta indossava una camicetta leggera con le maniche corte e ci mostrò le sue braccia nude. Rimasi senza fiato: erano tutte segnate da piccole bruciature come piccoli cerchi, uguali, sparse come per un disegno prestabilito. Era stata catturata da un milite fascista e interrogata a lungo da un gerarca, il quale, mentre lei rispondeva, le spegnava la sigaretta sulle braccia. C’era da rabbrividire a sentirglielo raccontare, ma lei, fiera, e tranquilla, disse semplicemente che quel disgraziato non era riuscito a strapparle neanche un nome. Io, pavida come sono, l’ascoltavo muta ed esterrefatta, lei parlava così come se niente fosse accaduto. Com’era semplice, a volte, l’eroismo di queste partigiane!


(continua…)



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