di
Maria Frasson
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C’era la guerra e non finiva mai
La situazione si faceva ogni giorno peggiore: mancava tutto e mancavano specialmente le comunicazioni. Le linee ferroviarie erano spesso interrotte, come i ponti e le strade: la buona volontà di soldati e civili cercava di ripristinare la viabilità, ma con scarso successo. Restava qualche autocarro, sopra tutto militare e funzionava quando poteva qualche autocorriera. Io mi trovavo su una di queste un giorno in cui tornavo a Scaldasole da Pavia. Improvvisa frenata del conducente, tutti fuori a nascondersi sotto una grande pianta fronzuta che la Divina Provvidenza aveva piantata proprio lì, a lato della strada, come un grande ombrello per proteggerci. Era passato su di noi, a volo rasente, un aereo, col suo rumore infernale. Non ci vide e il batticuore cessò. Evitammo il pericolo che l’autoveicolo venisse mitragliato e incendiato con il suo carico umano, come era avvenuto pochi giorni prima tra Milano e Pavia. Lo stesso capitò a Mario, che era appena partito da Scaldasole con un automezzo militare mentre portava all’ospedale con urgenza una donna: fu mitragliato ma riuscì a fuggire. Io, che in quel momento ero in chiesa, avevo sentito con indicibile spavento, la scarica di mitragliatrice dell’aereo, che tuttavia si stava allontanando senza essere riuscito a colpire l’obiettivo. Si viveva pericolosamente perché questi episodi erano frequenti dovunque, anche in aperta campagna.
In autunno, alla riapertura delle scuole, io avrei dovuto tornare a Pavia, ma poichè il Provveditorato di Milano aveva istituito a Sannazzaro un distaccamento per una scuola media provvisoria, io chiesi e vi ottenni il comando dell’insegnamento per quell’anno scolastico. Fu una provvidenza per me che potei rimanere in campagna con la mamma e le bambine evitando le difficoltà in cui ci si trovava a Pavia, soggetta agli allarmi e alle frequenti interruzioni di ogni attività e quasi in stato d’assedio per la fame. Sannazzaro de’ Burgondi è il centro più importante della Lomellina: centro agricolo, il paese era esente dai bombardamenti, benché non lo fossero le strade dei dintorni, e i ponti, difesi dalla postazione contraerea di Valenza Po, a pochi chilometri, che funzionava ininterrottamente, con scarsi risultati. Io partivo presto la mattina da Scaldasole, mi trattenevo prima pochi minuti in chiesa, dove coglievo uno stralcio della Messa, e poi mi incamminavo per i due chilometri e mezzo di una carreggiata fra campi arati, prati e risaie per raggiungere la mia scuola, dove rimanevo fino a mezzogiorno; e ripercorrevo la stessa via per tornare a casa. Era un inverno molto rigido: le scarpe facevano crocchiare il ghiaccio che copriva la strada, protetta per lo più dalla nebbia. Camminando, sola, completavo le brevi preghiere iniziate in chiesa, poi mi ripassavo in mente le lezioni che avrei tenuto a scuola. Quando la nebbia si diradava, e c’era il sole, tutto intorno brillava, si trasformavano in cristalli lucenti le goccioline che pendevano dai rami, e i ruscelli, sgelandosi, riprendevano il loro fruscio limpido e lieve, mentre intorno tutto era bellezza, tutto era silenzio e pace che conferiva distensione all’anima, placandone le angosce frequenti. Passavano via, rapidi, a volte sopra di me, a volo radente, gli aerei che mi costringevano a nascondermi sotto una pianta se solo in quel momento mi passava vicino per caso un carro agricolo, ma subito si allontanavano; pensavo a Mario laggiù che, quando veniva lo vedevo quasi subito ripartire… Non potevo essere felice. Eppure la bellezza panica e solenne della natura, di cui sentivo di fare parte, come dell’universo, mi sprofondava in uno smemoramento fiducioso e rasserenante. E per di più quelle lunghe passeggiate giovavano alla mia salute.
A scuola, gli alunni erano bravi, consapevoli del momento che attraversavamo e avevano anche voglia di studiare. Li amavo, tanto più che soffrivamo insieme. Era sopra tutto il freddo il disagio maggiore: avevamo delle stufe, i ragazzi portavano ciascuno un pezzo di legna, ma era troppo verde, faceva fumo e dovevamo aprire le finestre sulla nebbia gelida. Gli alunni si soffiavano sulle mani, ma noi non li trattenevamo troppo a lungo sui banchi: passeggiavamo, continuando la lezione, come i Peripatetici di Atene, quand’era possibile, lungo i corridoi. Il corpo insegnanti era formato da quattro gatti, tutti milanesi, tutti giovani: facevamo le funzioni di preside, segretario e aiuto-bidelli, tutti alla pari. Andavamo molto d’accordo, il buon umore non mancava mai; e in ogni modo si faceva scuola. Io, al ritorno dalle lezioni, passavo per riscaldarmi da una contadina, cara affettuosa donna, la Lena, che mi costringeva ad accettare un assaggio della sua polenta calda oppure di uno squisito di quei risotti di cui i pavesi sono maestri: aperitivo e viatico insieme per la strada che avrei percorso al ritorno.
La scuola era tutta contenuta nelle aule del primo piano di un edificio che al pianterreno ospitava una caserma delle SS. Sannazzaro era un punto strategico per i Tedeschi da cui sorvegliavano direttamente ogni movimento degli avversari fra il Piemonte e la Lombardia, le zone dell’Oltrepò pavese e dell’Alessandrino e Valenza con la sua contraerea. I ragazzi dovevano attraversare il cortile e avevamo dato l’ordine di rimanere schierati compatti, senza rivolgere nemmeno uno sguardo né a destra né a sinistra verso quei musi duri dei Tedeschi di guardia all’ingresso della caserma, sempre immobili, con le armi al piede, “diritti come fusi – come direbbe il Giusti – duri e piantati lì come pioli”. Una mattina un uomo del paese venne ad avvertirci di non muoverci dalla scuola, rimanendovi asserragliati perché era stato distribuito su tutti i muri un proclama dei Tedeschi che ordinava a tutta la popolazione di restituire alla caserma una notevole quantità di matasse di filo spinato che era stato rubato. Se entro mezzogiorno il filo spinato non fosse stato restituito, le prime dieci persone da loro incontrate per la strada sarebbero state fucilate sul posto. Avevamo deciso di non muoverci da scuola, tenendoci i ragazzi, a costo di dovervi bivaccare fino alla notte. E in assoluto silenzio. Per fortuna, poco prima di mezzogiorno il filo spinato ritornò al suo posto e la stessa persona del paese venne ad avvertirci che il pericolo era passato. Tornai subito a Scaldasole e mi venne incontro la Carla che, poichè la voce si era sparsa in giro, aveva tanto pianto poverina per paura di perdere la sua mamma!
Quante lacrime, Signore, abbiamo versato, ma quante volte abbiamo anche dovuto lodarti e ringraziarti per averci salvati!
(continua…)