3 SETTEMBRE – Ha già ricevuto la visita di centinaia di migliaia di persone, nella camera ardente allestita presso il Duomo di Milano, lui che amava farsi chiamare “padre” prima ancora che Cardinale. Proprio così, perché a Carlo Maria Martini, per 22 anni alla guida della diocesi milanese, i titoli onorifici andavano stretti. Così stretti che fino all’ultimo, fino a quel 31 agosto in cui si è spento in un istituto dei padri gesuiti a Gallarate, ha portato sulle spalle il peso della vecchiaia e della malattia, dei suoi 85 anni d’età ormai segnati dal morbo di Parkinson, per vivere umilmente un ruolo da gigante all’interno della Chiesa e farsi vicino alla gente comune.
Il primo passo per realizzare questo fu l’ideazione di un ciclo di incontri tenutisi proprio a Milano e volti a tenere vivo il dibattito filosofico tra fedeli e non credenti. Un’occasione di confronto cui tutti erano invitati a partecipare. Questo perché, come ebbe occasione di ripetere più volte, “Ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda”.
Così, nell’Aula Magna dell’Università di Milano, gli incontri si susseguirono fino al 2002, vedendo coinvolte personalità di spicco della cultura laica nelle sue diverse espressioni, quali Gustavo Zagrebelsky, Susanna Tamaro e Massimo Cacciari. Interrogato, in un’intervista, riguardo a questa esperienza, raccontò: “(…) Avevo istituito la Cattedra dei non credenti per sentirli parlare del loro contributo alla salvezza del mondo e di ciò che hanno da dire all’uomo. Non dimenticherò mai un famoso psicoanalista che parlò della preghiera dei non credenti. Volevo coinvolgere individui pensanti. Dovevano partecipare con la loro ricerca della verità. Ho chiesto ai non credenti da dove traessero il loro fondamento etico. Un noto giornalista ha replicato: «Non lo so. Non ho avuto alcun motivo per vivere e per servire, eppure l’ho fatto. Perché?». È stato il più sincero.”
E, profetico, il cardinale continuò: “Se la Chiesa vuole essere missionaria -e oggi deve esserlo se guardiamo ai dati sul calo dei suoi membri-, ma soprattutto se ricordiamo il mandato fondante di Gesù: «andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni», questo ci obbliga ad avviare un dialogo con tutti, a donare a tutti la nostra amicizia e a cercare la collaborazione di tutti. (…) Un cristiano si distingue proprio perché entra senza timore in contatto con coloro che la pensano diversamente e che hanno un’altra fede, con chi si pone domande ed è in cerca di qualcosa”.
Ernesto Balducchi in una foto giovanile
E come dimenticare che, proprio una delle organizzazioni più sanguinarie della storia d’Italia, i “Comitati Comunisti Rivoluzionari” legati alle Brigate Rosse, nel 1984 scelsero il Cardinal Martini per consegnare il loro arsenale in segno di resa? Ernesto Balducchi, esponente di spicco del gruppo eversivo e detenuto del carcere di San Vittore, il 27 maggio di quell’anno indirizzò al cardinale Martini una missiva nella quale sollecitava l’intervento della Chiesa per mediare la difficile ripresa del confronto con lo Stato italiano. Emblematico fu certamente il breve accenno alla riconsegna delle armi, che però secondo molti sarebbe stata una farsa in piena regola. Così non fu evidentemente, perché due settimane dopo, uno sconosciuto si presentò dal segretario del cardinale milanese lasciando presso di lui, senza dire una parola, un cospicuo numero di proiettili, pistole, bazooka e kalashnikov. Rifornimenti tali da far impallidire anche il Prefetto della città. A distanza di tanti anni, Balducchi sottolinea ancora che quel gesto fu dettato dal fatto che vi era stato uno scambio di lettere tra lui e il cardinale, dal quale era emersa la grande empatia di quest’ultimo. Queste le sue parole al giornalista Nicola Palma de “Il Giorno”, nel ricordo di un’esperienza che gli cambiò la vita: “Accettò di incontrarmi appena uscito dal carcere. Mi colpì perché si mostrò desideroso di conoscermi, di capirmi (…) Senza il cardinale, il mio percorso riabilitativo sarebbe stato molto più lungo e difficile».
Il rapporto di Martini con i carcerati fu però speciale fin dal principio, come emerge dal saggio: “Non è giustizia. La colpa, il carcere, la parola di Dio”. Sentendo forte il dramma dei detenuti, Martini richiamò infatti da subito e per più volte l’attenzione dello Stato e della Chiesa sulle condizioni di vita di questi ultimi, sulle possibilità concrete di prevenzione dei reati e sui temi della salvaguardia della giustizia e della dignità della persona.
Un messaggio più volte ripetuto a gran voce nei giorni prosperi e mantenuto con coerenza anche quando era ormai chiaro che la malattia lo stava uccidendo, portandolo via allo stesso modo dell’amico di una vita, Karol Wojtyla. Subito in molti hanno pensato che il suo netto no all’accanimento terapeutico celasse in qualche modo un’invocazione alla “morte dolce”, l’eutanasia, ma il Cardinale è stato fermo e risoluto nel chiedere di veder riconosciuta la possibilità di negarsi i trattamenti terapeutici inutili, in quanto: «Ritengo sia importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. Questi ultimi non possono mai esser approvati». Di conseguenza, negli ultimi giorni di vita, è stato sottoposto all’idratazione ma non all’alimentazione forzata. Proprio lui che aveva da sempre coltivato il dono della Parola per evangelizzare, insegnare, studiare, ormai da molto tempo era costretto a parlare con un filo di voce, aiutandosi con l’amplificatore e poi con un assistente che riusciva a cogliere il significato degli impercettibili suoni della sua bocca. La paralisi alle corde vocali, tuttavia, non gli impediva di ricevere i visitatori nel suo studio, di ascoltarli, consigliarli, di continuare anche i suoi dibattiti filosofici ove ve ne fosse la possibilità. E, proprio quando ormai era chiaro come il flusso della sua esistenza gli sfuggisse dalle dita, ai conoscenti accorsi al suo capezzale pare abbia detto: “Voglio affidarmi al mistero di Dio che regge il mondo e andarmene con fiducia nella Sua parola”. Un pensiero semplice ma essenziale, qual è stata la testimonianza di Martini durante tutto il suo percorso umano.
Silvia Dal Maso