Magazine Mondo LGBTQ

Il caso Braibanti | Intervista ad Aldo Braibanti

Da Uiallalla

Nel 2008 Aldo Braibanti ha rilasciato ad Andrea Pini un’intervista pubblicata nel 2011 nel volume “Quando eravamo froci” (Il Saggiatore) | Lo spettacolo “Il caso Braibanti” di Massimiliano Palmese per la regia di Giuseppe Marini sarà in scena al Teatro Nuovo di Napoli dal 20 al 25 marzo.

il caso braibanti | “Processo all’omosessualità”Ho intervistato una prima volta Aldo Braibanti in una domenica quasi primaverile, anche se era il 16 novembre 2008, nella casa che abitava in via del Portico d’Ottavia, nel quartiere del ghetto ebraico di Roma. Una vecchia casa popolare piuttosto malandata che probabilmente rispecchiava il carattere di Aldo, geloso della sua privacy, dei suoi ricordi, dei suoi tantissimi libri e documenti che riempiono letteralmente ogni spazio disponibile, in pile e accumuli apparentemente caotici. Sono riuscito a incontrarlo dopo mesi di «corteggiamento» telefonico. Pur avendomi detto che accettava di vedermi, ha voluto prendersi il suo tempo, imponendomi, sempre con squisita gentilezza, un approccio lento. Questa intervista è stata realizzata con appunti presi alla meglio, perché Aldo non ha voluto essere registrato. Poi mi ha invitato a tornare da lui altre due volte per correggere insieme la stesura e limarla, cosa a cui teneva moltissimo: la sua principale preoccupazione, da uomo che solitamente non concede interviste, è stata quella di eliminare parole e ambiguità, che potessero dare spazio a equivoci e a interpretazioni non volute.

Braibanti, che al momento dell’incontro aveva oltre ottantasei anni, è un meraviglioso signore, dolce e gentile, ma dal carattere assai fermo. È agile nei movimenti per la sua età, veste in modo semplice, non è molto alto di statura, una testa di capelli bianchi. Vive in quelle stanze insieme al suo bassotto Lado, un nome che è l’anagramma di Aldo – mi fa notare. Mi parla con un tono dolce e piano, nel quale non c’è traccia del quasi mezzo secolo vissuto a Roma e che lascia emergere ancora l’eco delle assonanze della sua Emilia. Da poco tempo Aldo è tornato a vivere nel suo paese d’origine.

Sei nato in un paese della provincia di Piacenza nel 1922, ma è lì che hai studiato?

Sono nato a Fiorenzuola d’Arda, nel piacentino, ma ho fatto il liceo a Parma e l’università a Firenze. Lì mi sono laureato in Filosofia teoretica, con una tesi sul grottesco

Qual è stata la tua formazione nel campo delle emozioni, diciamo la tua «educazione sentimentale»?

Voglio subito togliere di mezzo un possibile equivoco: io credo nella libertà sessuale e per questo penso sia giusto abolire ogni forma di etichetta. Contemporaneamente penso che il movimento omosessuale sia stato e sia ancora molto importante per il processo di liberazione. Ma le esperienze sentimentali e sessuali, pur avendo avuto un’importanza molto grande, non sono state al centro della mia vita: il mio mestiere di vivere è stato ed è la poesia e non posso dimenticare i miei interessi verso i gravi e attuali problemi ecologici. Più in generale io sono debitore nella mia cultura a un certo pensiero filosofico orientale, ai presocratici, a Spinoza e a Darwin.

A cosa devi la tua precoce passione politica?

Sin dai tempi del liceo ero animato da una profonda ribellione all’autoritarismo. Sono arrivato all’antifascismo sia grazie alla mia famiglia, sia grazie all’avversione per una certa «dittatura» cattolica, la cui cultura era estranea alla mia esperienza. E quindi è stato naturale per me entrare nella Resistenza. Ho iniziato a partecipare alla propaganda antifascista quando ero al liceo a Parma, poi a Firenze sono entrato in Giustizia e libertà, dove ho conosciuto Piero Calamandrei e Giorgio La Pira. Nel ’43 sono entrato nel Pci e ho lavorato con il partito nella Resistenza. Dopo la Liberazione ho collaborato per due anni alla ricostruzione e, sempre nel Pci, ho lavorato alla fondamentale esigenza di entrare in un contatto profondo e fertile con la classe operaia, sulla quale era pesata la maggior parte della lotta antifascista. Nel ’47 la direzione del partito mi aveva proposto di continuare l’attività politica a Roma, ma io rifiutai perché avevo già deciso di tornare al mio vero lavoro, restando nel piacentino. La poesia è sempre stata il mio mestiere di vivere e di conseguenza anche l’arte figurativa: in quegli anni lavorai molto con la tecnica del collage e dell’assemblage. Insieme a Renzo Bussotti utilizzammo una torre medievale di Castell’Arquato, un borgo vicino al mio paese, per far nascere un laboratorio artistico, nel quale fra l’altro producevamo ceramiche e rami smaltati. Quell’esperienza durò parecchi anni, tra la fine degli anni quaranta e la fine dei cinquanta. Nel ’56 partecipai ai lavori per il congresso nazionale del Pci e feci un intervento molto polemico a causa del quale non fui ammesso tra i delegati. Allora restituii la tessera, spostandomi ancora di più a sinistra, verso quella che oggi si chiamerebbe sinistra radicale, e da quel momento mi considerai un compagno di strada. Io ero attratto dagli aspetti libertari del marxismo e non mi piacevano le scelte di tipo stalinista, che invece erano predominanti. Da allora non ho mai più voluto far parte di nessuna organizzazione e non perché ce l’avessi con il Pci, ma perché la mia indole libertaria mi spingeva verso nuove forme di ricerca. In quegli anni iniziai anche a girare un film con il musicista Sylvano Bussotti, fratello di Renzo, ma non riuscimmo a finirlo. Più tardi cominciai le mie esperienze teatrali, avevo dato vita a un laboratorio e nel 1960 pubblicai “Il circo” con le edizioni Atta, i primi quattro volumi dei miei lavori, che contenevano le mie poesie a partire dal ’44: quelle dei primissimi anni erano andate tutte distrutte dai fascisti. Il mio lavoro teatrale in quel periodo ruotava soprattutto intorno alla mia opera “Il circo”, ma negli anni sessanta ho pubblicato altri otto lavori teatrali. Nel ’62 mi sono spostato a Roma insieme a Giovanni Sanfratello, soprattutto per difenderlo dalla persecuzione della famiglia, dovuta a ragioni religiose, esistenziali e ideologiche. I Sanfratello, anche loro piacentini, erano ultraconservatori, cattolici tra i più esasperati e fascisti e non riuscivano ad accettare che il loro figlio potesse scegliere una vita tanto diversa dalla loro. Poi sai bene come è andata la storia, io sono finito in carcere e Giovanni in manicomio.

Quindi a Roma eravate venuti in cerca di tranquillità e maggiore libertà ed è successo esattamente il contrario.

Sì, eravamo venuti pensando a un periodo provvisorio e avevamo preso una pensione in via del Corso. Abbiamo vissuto insieme più di un anno e mezzo, mentre i Sanfratello e i loro amici ci spiavano e costruivano le loro accuse. Poi la famiglia ha rapito Giovanni, l’hanno caricato a forza in macchina. È stato un vero sequestro, con la più assurda violenza, e si è concluso in una clinica psichiatrica di Padova. Giovanni dopo il processo non l’ho più rivisto, anche se le sue deposizioni sono state tutte nettamente a mio favore. Ma la sua vita è stata travolta da questa vicenda, lui aveva l’obbligo di risiedere nella casa di famiglia e di non vedermi mai più. Non poteva neppure leggere libri che fossero stati scritti negli ultimi cent’anni! In pratica era come se fosse agli arresti domiciliari. Invece io sono rimasto a Roma.

Hai provato negli anni successivi a metterti in contatto con lui?

No, era una cosa delicatissima, lui non aveva libertà e io cercandolo temevo di nuocergli… Ogni tanto ho ricevuto qualche notizia sul suo conto, ma niente di più.

Ma pensi che sia ancora vivo?

Certamente, e spero che lo sia il più a lungo possibile.

Raccontami del carcere…

Era la terza volta che finivo in carcere. La prima volta ero stato arrestato dalla polizia fascista e sono stato liberato il 25 luglio del ’43, alla caduta del fascismo. Ma ormai a Firenze il mio nome era negli elenchi degli antifascisti e i nazisti nel ’44 mi arrestarono di nuovo: quelli sono stati i giorni più duri, dei quali preferisco non parlare. Mi salvai per un solo giorno. Il giorno dopo il mio gruppo di prigionieri politici sarebbe partito per il campo di concentramento di Fossoli e poi deportato in Germania, ma io fui liberato con un ordine di scarcerazione inaspettato, frutto dell’aiuto dei compagni della Resistenza. E poi c’è stato il terzo carcere a Roma, dopo che la famiglia Sanfratello, in accordo con il fascismo di alcuni magistrati, tirò fuori il dimenticato reato di plagio. E riuscirono ad applicarlo quando ormai Giovanni era maggiorenne, per sottrarlo «ai comunisti pericolosi e perversi». Finito il processo, dopo i due anni di carcere, sono rimasto a Roma!

Come si comportò il Pci durante il processo?

Venne fuori anche l’aspetto sessuale, che diventò il nucleo dell’accusa contro di me, si parlò molto di perversione… E il Pci era un po’ «bacchettone» e a volte mancava di coraggio, diciamo che ha avuto un atteggiamento prudente. Il giorno della sentenza di primo grado, che mi condannò a nove anni di carcere, era il 1968, ci fu una ribellione in sala e seguirono molte proteste. Allora anche l’Unità pubblicò un articolo di fondo in prima pagina, “Nel nome del plagio”, in cui mi difese apertamente. Invece Marco Pannella e i radicali da subito avevano fatto una grande battaglia per me. Moltissimi, tra cui anche Pasolini, si spesero per difendermi: Eco, Moravia, Musatti e altri parteciparono, mentre ero in carcere, a un libro pubblicato da Ginevra Bompiani, “Sotto il nome di plagio”. Sempre mentre ero in prigione fu pubblicata anche una raccolta dei miei scritti con il titolo “Le prigioni di Stato”. Anche Carmelo Bene era tra quelli che mi hanno sostenuto e nella sua biografia ha poi scritto pagine di stima e di riconoscimento per me. Nel processo d’appello la sentenza fu un po’ più favorevole e il presidente mi diede sei anni, dei quali due condonati, due scontati perché avevo fatto la lotta partigiana e due li avevo già fatti. Così uscii da Rebibbia.

Ma come nacque questa storia del plagio?

Il reato di plagio era stato istituito con il codice fascista Rocco, ma non era mai stato utilizzato, eccetto una volta contro alcune donne zingare accusate di aver tentato di rapire dei bambini, durante il fascismo. Per me lo ha tirato fuori il pm Loiacono e lo ha usato per impiantare tutta l’accusa. Per fortuna qualche anno dopo la Corte costituzionale ha sentenziato la sua abolizione.

La tua famiglia come si è comportata?

Mio fratello e mia madre sono stati meravigliosi. Mio padre era già morto. Mentre ero in carcere mia madre mi spediva un espresso di quattro pagine ogni giorno, l’ha fatto per due anni. E una volta alla settimana mi preparava un pacco. Mi sono stati sempre molto, molto vicini e non è mai uscito un rimprovero dalle loro bocche. Eravamo anche confortati dal fatto che via via l’opinione pubblica si spostava verso di me. Ho ricevuto migliaia di lettere, da due a dieci al giorno e le ho tutte conservate.

Cosa ti scrivevano?

Molti mi davano sostegno, mi incoraggiavano, ma c’erano tra gli altri anche moltissimi omosessuali, uomini e donne, che mi parlavano di sé, dei loro drammi, delle loro difficoltà: non avevano nessuno con cui parlare e io per loro ero diventato un punto di riferimento.

Devono essere lettere interessantissime, sarebbe bello se qualcuno oggi potesse lavorarci sopra.

Certamente, se avrò tempo lo farò, altrimenti lo farà qualcun’altro dopo di me!

Hai mantenuto rapporti, una volta uscito dal carcere, con i tanti che ti hanno sostenuto?

Una volta uscito avevo un gran bisogno di appartarmi per riprendere il mio lavoro. Molti partiti e associazioni mi invitavano, ma in un’ultima intervista sull’Europeo chiesi a tutti di lasciarmi al mio raccoglimento e alle mie ricerche. Non volevo interviste, volevo appartenere solo a me stesso e al mio lavoro artistico. Ma sia chiaro, non ho un atteggiamento di condanna verso chi si batte onestamente per il proprio successo.

Non hai frequentato neppure Pannella, che ti aveva sostenuto in modo particolarmente attivo?

Per Pannella provo una stima profonda e un’affettuosa riconoscenza, ma l’ho incontrato poche volte… Pannella comunque ha mantenuto i contatti con la mia famiglia. Durante la mia carcerazione lui era andato molto spesso a trovare e a confortare mia madre a Fiorenzuola. Io invece mi sono inselvatichito sempre di più. Per natura sono un uomo solitario e introverso… E non ho neanche ringraziato nessuno: avevano fatto una battaglia di civiltà e in fondo avevano anche difeso se stessi, oltre che me. Io ho messo in primo piano l’arte, la poesia, le ho rimesse al centro della mia vita. Questo non significa che non provassi gratitudine e rispetto, testimoniati anche nel mio lavoro.

Il tuo lavoro artistico e intellettuale, a partire dagli anni sessanta in poi, su cosa si è concentrato?

Ho proseguito le esperienze con il teatro, lavorando prima a “Virulentia” e subito dopo a “Le ballate dell’Anticrate”, un modo personale per definire l’atteggiamento libertario. Il mio lavoro in teatro era la messa in scena dei miei testi: lavoravamo in modo abbastanza particolare e facevamo una sola replica dopo molto laboratorio. Poi nel periodo 1978-81 ho fatto anche trasmissioni radiofoniche Rai, con vario materiale e interviste su temi politici e anche ecologici.

Hai mai incontrato il poeta Sandro Penna?

Lo conoscevo, ma non l’ho mai incontrato. Io preferivo rimanere fuori da tutti i gruppi culturali, anche quello di Moravia, Morante e quello del Gruppo 63… Questo mi ha aiutato a riprendere il mio lavoro culturale e poetico. Non mi è mai piaciuto l’apparire e ho sempre cercato la maggiore fedeltà all’essere.

Quando è nato il movimento gay non ti sei mai sentito tentato di farti coinvolgere?

No, io avevo preso la decisione, sin dal ’47, di non far più parte di nessuna organizzazione. Però ho sempre ritenuto che la nascita del movimento gay fosse un fatto molto importante. Ho seguito con interesse la nascita del Fuori, così come anche quella di alcuni gruppi anarchici e radicali. Comunque non ero ostile alle forme organizzative, volevo solo rispettare le mie scelte di vita.

Raccontami qualcosa delle tue prime storie, da adolescente, o della tua giovinezza.

Da giovane ho avuto varie passioni, soprattutto verso ragazzi, ma anche verso donne. Ho sempre pensato che quello che conta è l’esperienza che si vive, indipendentemente dal sesso della persona. Comunque le mie sono state esperienze molto solitarie e non ne parlavo mai con nessuno. La mia unica vera grande storia è stata con Giovanni, che è stato perseguitato in modo indegno.

Ma prima di Giovanni non avevi avuto nessuna storia?

Nel periodo fascista la vita sessuale doveva avere la camicia nera in tutti i sensi. Ogni tanto mi capitava qualche avventura, poche esperienze e passeggere. Ma tutto doveva avvenire in modo molto riservato. D’altra parte io ero così per natura e ancora oggi penso che la vita privata non debba essere esibita, almeno fino a quando una persona è perseguitata proprio per la sua inclinazione. Ho anche avuto una breve storia sessuale con l’altro ragazzo implicato nel processo, sfruttato pesantemente dall’accusa come testimone contro di me. Poi ho saputo che lo avevano pagato per farlo testimoniare.

E durante la Resistenza avevi qualche amico speciale?

Un amico no, c’è stato qualche episodio. Ma avevamo ben altro a cui pensare, dovevamo salvare la pelle ogni giorno!

Ma se ne parlava di omosessualità, ne parlavate fra di voi?

Mussolini, a un giornalista straniero che gli aveva domandato qualcosa sull’omosessualità in Italia, rispose: «Non esiste!». Invece c’era ed era diffusa, loro lo sapevano ma preferivano perseguitarla in modo blando, perché volevano evitare lo scandalo. Il rifugio di molti omosessuali finiva per essere quello dei pissoir, dove è successo molte volte che alcuni disgraziati venissero arrestati dopo un falso adescamento da parte di poliziotti in borghese. Alcuni fiorentini ricorderanno le famose «gabbie d’oro, d’argento e di stagno», che altro non erano che i pisciatoi più noti della città. Ma il fascismo non ne parlava assolutamente. Negli ambienti antifascisti, discutendo di vari argomenti, è capitato che si affrontasse anche questo tema e, come ancora oggi, c’era chi era aperto e favorevole e chi no.

Cos’è cambiato dopo il fascismo, con l’arrivo della democrazia?

Non è cambiato nulla per tutti gli anni cinquanta, non c’era più la persecuzione poliziesca, perché era diventata pretesca!

E dopo Giovanni, dopo che hai ripreso la tua vita qui a Roma?

Il processo ha tentato di mettermi in mutande davanti al mondo, ma io ho mantenuto la mia vita e il mio carattere. Ho continuato ad avere bisogno di riservatezza e le poche cose che mi sono capitate sono sempre avvenute nel mio privato.

Eppure qui a Roma hai avuto la possibilità di incontrare persone omosessuali molto diverse da te. Non ti hanno incuriosito? Per esempio nel mondo del teatro, che anche tu praticavi, c’erano personaggi simpaticissimi e anticonformisti come Dominot, Vinicio Diamanti o Paolo Poli.

Sono stato amico di Dominot e abbiamo anche lavorato insieme nel periodo di “Virulentia”! Certo, lui non faceva mistero della sua omosessualità… Ho conosciuto anche Vinicio e ho incontrato anche Paolo Poli, per il quale ho sempre avuto una grande stima.

Sapevi che a Roma negli anni sessanta c’erano vari luoghi dove gli omosessuali si incontravano?

Sì, per esempio c’erano i cinema, come il Rialto, il Nuovo Olimpia e altri che ora non ricordo, anche se io non ero interessato a quel genere di incontri.

Un personaggio pubblico come Giò Stajano non può esserti sfuggito. Cosa ne pensavi?

Giò Stajano l’ho incontrato quando faceva il giornalista. Mi divertiva molto come personaggio pubblico per la sua irriverenza, anche se io sono molto diverso. In un certo senso so di essere il peggior nemico di me stesso per il fatto di aver sempre odiato la pubblicità!

E invece quali sono stati i tuoi rapporti con Sylvano Bussotti, un artista altrettanto pubblicamente gay? Con lui parlavi delle tue storie?

Conosco Sylvano, che è un po’ più giovane di me, da quando aveva otto anni e siamo sempre stati in confidenza. Naturalmente era al corrente della mia storia con Giovanni e sia lui che il fratello Renzo al processo sono stati testimoni molto attivi a mio favore, mi hanno appoggiato fino in fondo.

E con Pannella avevi confidenza? A pensarci bene anche lui è uno che non ha mai raccontato le sue storie omosessuali.

Infatti! Pannella è simile a me da questo punto di vista, riservato sugli aspetti privati. Sul piano civile invece è giusto partecipare quando ci sono dei princìpi da difendere o qualche battaglia da combattere. E comunque apprezzo anche le persone che sono molto diverse da me. Per esempio Franco Grillini è una persona che stimo per la sua azione politica, ma anche per il suo coraggio e per il suo carattere.

Cosa pensi delle parate del Gay pride?

Sono andato quasi sempre a vedere le parate del Gay pride. Certo, ci sono anche aspetti esibizionistici, ma c’è una ragione politica e non mi hanno mai provocato una reazione di condanna, anche se mi sono sempre posto in un modo molto diverso verso il mondo esterno. D’altra parte Montale mi diceva: «La gente vuol sapere di noi… ma noi siamo i lavori che abbiamo fatto!». Però non mi sono mai nascosto, non ho mai avuto bisogno di negare. Durante il processo un avvocato mi chiese esplicitamente se io e Giovanni avessimo avuto rapporti di tipo omosessuale e risposi fermamente di sì, perché non avevo e non ho niente da nascondere. Mi domandarono anche se avessimo avuto rapporti completi, e risposi di sì anche a quello!

Sono colpito dal tuo estremo bisogno di coerenza, fino a sacrificare in parte anche le relazioni umane.

Certamente la coerenza costa sempre molto: a me è costata rifiuti, fatiche, rinunce. Eppure essere fedele ai miei princìpi è il piacere più grande che ho avuto nella vita! È solo un grande bisogno di privatezza.

Ti ringrazio davvero moltissimo per i nostri incontri e per questa intervista. Ora, che ti ho conosciuto un po’, mi rendo conto ancora meglio di quanto siano preziosi.

Per gentile concessione dell’autore

 


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :