di Alfonso Nannariello
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Qualche giorno dopo aver partorito il primo figlio le nuove madri trasìenn ‘nsant. Letteralmente sarebbe entravano in santo. In pratica significava che andavano a ricucirsi l’imene della santità.
Se la data del parto non era troppo lontana lo facevano il 2 febbraio. Appena fatta un po’ di luce, andavano a messa. A purificarsi come, in quel giorno in cui cadeva la memoria, la beata vergine Maria.
Al rito le accompagnavano le suocere. Mai il marito.
Dopo il «missa est» iniziava una brevissima funzione. Di fronte al prete che non usciva dallo spazio dell’altare, la donna sentiva in silenzio una preghiera che l’amen congiungeva a sé. Poi, mentre il sacerdote le teneva un lembo di stola sul braccio sinistro, rispondeva a qualche invocazione. L’aspersione dell’acqua benedetta lavava poi il peccato. Raccolta la benedizione con un segno di croce, la donna tornava a casa di nuovo in grazia.
Un tempo, alle donne che avevano partorito era interdetta la comunione. Figliare era qualcosa di impuro, nonostante fosse stato comandato da Dio ad Adamo.
Nella scienza teologica di allora, l’atto genitale, nel matrimonio, era come una medicina per curare un desiderio impuro, il male della carne. Era un rimedio alla concupiscienza che, a causa della colpa originale, non ci si poteva più togliere di dosso, né con lana d’acciaio, cenere, aceto e strofinii di battesimi e assoluzioni, né facendo penitenza, camminando scalzi o ginocchioni.
Togli una nota a un’opera, sposta una sola virgola, un accento e tutta la struttura crolla. Così anche da noi, dopo il terremoto del 1980.
La vergine della Nunziata è quasi in concetto di peccato. L’arcangelo Gabriele, senza più il giglio, tenta di sedurla dall’orecchio e ingravidarle il cuore convincendola con le sue parole.
Maria è riservatamente disponibile. Sembra lasciarsi solo ancora un po’ pregare.