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Il Caucaso sconosciuto: quello cristiano

Creato il 13 novembre 2013 da Matteo
Il Caucaso sconosciuto "Caro mio! – grida quasi il nostro interlocutore. – Ricorda! Qui non ci sono mai stati cristiani! Mai!" "Che farò, ti mentirò, forse? – si stupisce il monaco in risposta. – Sono un sacerdote!" Ci siamo portati lontano: gli estranei qui non vanno e se ci vanno, succede molto raramente. Siamo abituati a considerare il Caucaso del Nord la terra originaria dell'Islam, tuttavia non è così: testimonianze del fatto che mille anni fa queste terre erano ortodosse sono state trovate qui già nel XVIII secolo, per non parlare delle ottimamente conservate chiese dello Zelenčuk [1] sul territorio dell'attuale Karačaj-Circassia. "Il Caucaso del Nord è una delle più antiche culle del cristianesimo in Russia. Lo sviluppo e l'affermazione della fede cristiana tra i popoli di questa regione rappresenta una delle pagine poco studiate della storia della Chiesa Ortodossa Russa", – ha scritto nella prefazione alla sua dissertazione "Storia del cristianesimo nel Caucaso del Nord prima e dopo la sua unione con la Russia" il metropolita di Stavropol' [2] e di Vladikavkaz [3] Gedeon (Dokukin), per cui questa terra è rimasta un dolore particolare: infatti proprio vladyka [4] aveva ordinato sia padre Anastolij Čistousov, sequestrato e nel 1996 ucciso in Cecenia dai guerriglieri, sia padre Igor' Rozin, ucciso nel 2001 in Kabardino-Balkaria, a Tyrnyauz, proprio davanti alla sua chiesa. L'infiammata dissertazione del metropolita Gedeon, che ancora si studia nel seminario di Stavropol', fu scritta negli anni '60, tuttavia anche dopo che è passato mezzo secolo di storia del cristianesimo nel Caucaso del Nord resta "poco studiata" come prima. "C'è una chiesa di pietra della lunghezza di 4 saženi [5] nel circondario di Čegem presso il villaggio di Ulu-El't", – scriveva nel suo "Viaggio per la Russia e i monti del Caucaso" Johann Anton Güldenstädt; estratti della sua opera furono stampati in russo sotto il titolo "Descrizione geografica e statistica della Georgia e del Caucaso". Andiamo anche noi a questa chiesa da Tyrnyauz – la nostra strada è nel villaggio di Ėl'-Tjubju, più noto con il nome russo di Verchnij Čegem [6]. Noi siamo il sacerdote e monaco Igor', l'autista Saša (al volante di una Niva argentata), due ospiti della cittadina di Prochladnyj [7] – Larisa e madre Valentina – e la vostra umile serva. Molto indietro è rimasta Pjatigorsk [8] con il grande magazzino «Zara» quasi come su via Tverskaja [9], i centri commerciali, l'illuminazione, i bancomat e le ragazze vestite audacemente, principalmente, a dire il vero, forestiere. In tutti i villaggi ci sono moschee nuove. Per le strade uomini seduti su panche presso le case e donne con vestiti lunghi e teste coperte. La strada punta verso l'alto, snodandosi tra monti di un verde acceso e che per i fitti boschi sembrano riccioluti e simili ad agnelli. Il giorno è nuvoloso e perciò il verde è ancora più verde. Un altro colore dominante è il rosso ramato; acquistando vividezza, arriva da ogni parte: dalle cortecce degli alberi, dalle pietre, dalle rocce e perfino dai muschi. Le mucche che vagano per la strada rotabile – particolarità caratteristica della regione – si scambiano con asinelli pelosi e ruvidi, a cui piace fermarsi sonnacchiosi attraverso la strada. Le rare macchine li aggirano virtuosamente, muovendosi incontro l'un l'altra e suonano energicamente: pare che gli abitanti del posto che sono stati nei paesi islamici abbiano portato da là questa nuova abitudine. Se chiudiamo gli occhi, possiamo pensare di essere da qualche parte in Egitto. Passiamo per Nižnij Čegem [10]. Indicatore: "Cascate di Čegem". Autobus parcheggiati, un mercato lungo la strada – merci legate e balcare che sferruzzano energicamente. Vanno i turisti – giapponesi o coreani, che fanno scattare continuamente le loro macchine fotografiche, i più coraggiosi, dove non li incontri? Non so se sentano la non univocità di questo posto. L'acqua vola precipitosamente dalle rocce – quando c'è il sole, sulle cascate di Čegem sta l'arcobaleno, ma oggi il tempo è di altro umore: argento e cristallo scorrono giù dalle rocce scure in modo severo e quasi ascetico. La strada porta in alto e la nostra macchina diventa l'unica che come prima punta avanti – gli estranei qui non vanno e se ci vanno, succede molto raramente. "Dalla grande quantità di antiche rovine scoperte qui si può ritenere che questi čegemi fossero molto numerosi un tempo, quando seguivano la religione cristiana. Effettivamente hanno ancora delle chiese, una delle quali si trova sulla riva del Čegem ed è assai notevole; è costruita su una roccia in cui hanno scavato un sentiero a serpentina, cingendolo da entrambi i lati con recinzioni di ferro. In questa chiesa si conservano ancora frammenti di libri, di cui mi sono procurato qualche pagina, inviando una persona in questa impresa pericolosa. Uno dei fogli contiene parte del Vangelo in greco antico; altri si sono rivelati varie parti di libri utilizzati nella liturgia greca", – scriveva alla fine del XVIII secolo Peter Simon Pallas nelle sue "Note sul viaggio nelle amministrazioni meridionali dello stato Russo negli anni 1793 e 1794". Queste rovine, rammentate più di una volta dai viaggiatori dei secoli scorsi, le cerchiamo anche noi. Presto compare un indicatore: "Ėl'-Tjubju". A sinistra si scopre improvvisamente una costruzione insolita per questi posti – torri millenarie simili ad essa stanno dall'altra parte della principale catena montuosa caucasica principale, nella Svanezia ortodossa. Circondata dalle case basse del villaggio balcaro appare del tutto estranea, non capisci subito perché. Forse perché questa torre è molto più antica di tutte le altre costruzioni – anch'essa ha circa mille anni. Anche se non è per questo – semplicemente appare come i resti di una grande nave, gettata sulla riva dove vive un popolo che ha dimenticato come si va in mare: è evidente che la torre appartiene non solo a un altro tempo, ma anche a un'altra civiltà, non balcara. Non sappiamo tanto bene dove si trova ciò che cerchiamo e perciò scansiamo un villaggio, che, nonostante la presenza di macchine nei cortili e di piatti della TV satellitare su alcune case, sembra non essere toccato dal tempo – o dal nostro paese. Passiamo su un ponte e ci dirigiamo più lontano. A sinistra del Čegem che schiuma sul fondo della gola energico come onde contrarie che ribollono su grandi rocce e cozzano letteralmente le une con le altre, all'improvviso emergono strane costruzioni appuntite fatte di pietre gialle – sono antichi monumenti tombali. Li circondano i resti di un qualche costruzione in pietra. Più lontano si vede un cimitero moderno. Vediamo un uomo piccolo dai capelli chiari con il viso arrossato dal vento: tenendo in mano un grosso bastone-mazza levigato, che facilita lo spostamento per i pendii montani, passeggia in qualche direzione al lato della strada. Ci fermiamo, offriamo un passaggio. Il nostro nuovo conoscente parla ottimamente in russo, quasi senza accento, rafforza appena le consonanti, pronunciandole in qualche modo particolarmente duro, con una "r" rimbombante. Si siede in macchina con piacere e risponde alle nostre domande come una guida. Quelle costruzioni appuntite? Sì, sono tombe, "la città morrrrta", – dice con rilievo Ibragim. Infine chiediamo direttamente: ci sono rovine di chiese cristiane qui? Ibragim all'improvviso entra in agitazione – gli ribolle perfino un po' di schiuma agli angoli delle labbra. "Carrro mio! – grida quasi. – Ricorda! Qui non ci sono mai stati cristiani! Mai!" "Che farò, ti mentirò, forse? – si stupisce dal sedile anteriore padre Igor'. – Io sono un sacerdote! Così scrivono nei vecchi libri". Che è un sacerdote era comunque evidente – è in tonaca e copricapo, – ma Ibragim lo capisce solo adesso. Guarda attentamente per un minuto, poi tende la mano… e si scusa: "Perdonami, fratello, non volevo offenderti", – chiede solo che gli regali il libro in cui è scritto che qui vivevano i cristiani. E mi ricorda una storia raccontata da un pope locale, accaduta undici anni fa, quando aveva appena iniziato a servire. Lo avevano ordinato subito dopo che nel Caucaso del Nord era stato ucciso padre Igor' Rozin e il giovane sacerdote, anche se gli doleva il cuore, non si buttava affatto ad andare in strada in tonaca. E chiese con delicatezza al vescovo che governava la benedizione per portare l'abito borghese fuori dalla chiesa. Questi lo benedisse. Ed ecco che per l'appunto il pope andava dalla sua parrocchia a servire a Nal'čik [11] – come al solito in pulmino. Si sedette, tenendo sulle ginocchia un pacco enorme con tonaca, camice, paramenti, croce pettorale e tutto ciò che compete a un sacerdote. Guarda dal finestrino. E all'improvviso sente una voce: "Ascolta, non ti vergogni? Perché ti comporti così? Tutti sanno che sei un sacerdote – perché tu stesso lo nascondi e vai con il "cambio"?" "Ed ecco, – raccontò poi il pope, – da allora non c'è stato un caso in cui sia uscito di casa senza tonaca. E' molto importante essere sempre in tonaca. Perché ovunque ti trovi questo dice subito alla gente chi sei. Infatti tu sei un ministro del culto, tu servi Dio. Talvolta questo ispira rispetto, talvolta rifiuto e talvolta perfino rabbia, ma sempre e in qualsiasi situazione ti obbliga a trovarti davanti al Volto di Dio". E il pope conosceva un po' l'uomo del pulmino – fin dall'infanzia: erano coetanei, anche se avevano studiato in scuole diverse. Qualche anno dopo questo fatto, nel 2010, Asker Džappuev – così si chiamava – capeggiava il gruppo estremista del Jama'at [12] "Jarmuk" [13] del cosiddetto Emirato del Caucaso [14], quando il precedente comandante fu ucciso. Un anno dopo fu ucciso anche Asker Džappuev – durante un'operazione speciale nel centro abitato di Progress nel territorio di Stavropol'. Scrissero che nell'anno in cui fu emiro del Jama'at l'attività dei guerriglieri in Kabardino-Balkaria aumentò assai. Tali sono le realtà della vita di qui. Tra l'altro non solo gli antichi libri, ma la stessa lingua balcara conservano antiche tracce della vita ortodossa. I balcari chiamano il mese di giugno Nikkol aj – mese di Nicola [15]; luglio – Ėlija aj, mese di Elia; nella parola che significa chiesa – kilisa – si insinua la greca ekklesia e c'è anche l'Abystol aj – il mese dell'apostolo, anche se gli stessi portatori della lingua non sempre capiscono cosa significano questi nomi e da dove vengono. Il nostro secondo interlocutore, per fortuna, ha capito rapidamente cosa cercavamo – "la torre con la croce e la scala nella roccia" – e ha spiegato come andare là. La "torre con la croce" si è rivelata le rovine di una piccola chiesa bizantina con una costruzione in pietra rinforzata con la malta, a differenza delle costruzioni balcare. Se si guarda dall'altra riva della stretta gola, è semplicemente un mucchio di pietre su un monte, ma sali e vedi: ecco le porte dell'iconostasi, ecco il trono ed ecco l'altare, su cui qualcuno che è stato qui prima di noi ha tracciato con una candelina una crocetta a otto punte. Il pavimento, certo, è finito nella terra e il tetto, certo, non c'è più da tempo. Ed ecco che tra queste mura preghiamo davanti all'immagine della Madre di Dio di Mozdok [16]. Si muove al vento il mantello del monaco sacerdote e due grandi aquile, di quelle che giravano sulla roccia vicina, volano a vedere cosa accade qui, quando padre Igor' nella preghiera liturgica ricorda i nostri fratelli che hanno operato in questo posto. Chi costruì una chiesa qui e mise in una gola una scala che si avvolge nella roccia, che va dove non si può già andare – letteralmente in cielo? Chi servì tra queste rocce, vicino alle aquile che volano a vedere, la Divina Liturgia? Come vivevano qui? Quanti erano? Come si chiamavano? Come si salvarono tra questi monti? Come se ne andarono da qui – vivi o direttamente in cielo? Dio lo sa. E nessuno di noi: tutto è scorso nella storia come l'acqua dalle cascate del Čegem, che vola dall'alto nei fiumi montani. Ma i loro Angeli stanno presso i troni, distrutti dagli uomini, di antiche chiese smarrite tra i monti. E con gli angeli pregano i padri e, rispondendo alla loro preghiera, all'improvviso si spande un velo grigio di nubi e nello squarcio azzurro brilla un sole acceso e le cascate brillano di arcobaleni. I Tuoi Altari, Signore delle forze! Se si va avanti per questa gola, c'è un altro lato, accanto a una grotta stranamente enorme nella roccia, sopra il fiume che rimbomba giù, dove termina lo stretto sentiero – e si sa dove cercare, vedrai una scala che porta alla chiesa nella roccia. Proprio qui, inviando una persona in un'impresa pericolosa, Peter Simon Pallas "si procurò parte del Vangelo in greco antico" e "diverse parti di libri utilizzati nella liturgia greca". Padre Igor' decide di passare per la scala, i cui gradini, sostenuti da un'antica costruzione in pietra, salgono su con una ripidità da capogiro. Dal basso guardiamo come sale su una roccia quasi sospesa la nera figura di un monaco ed ecco che si ferma: la parte superiore della scala è crollata e là senza un'attrezzatura speciale non si va – cioè, non oggi. Evitata questa scala monastica per il cielo, qualche giorno dopo vai nella gola del Baksan [17] verso Tyrnyauz – per l'appunto dalla parte dove pende su di essa il monte Totur. Alla sua vetta si attaccano le nubi e si impigliano nella gola, tenendo la città all'ombra mentre ovunque esulta liberamente il sole. Dal basso il Totur si vede spesso scuro, ma quelli che ci salgono sanno che questi, veramente severo, serba in se anche un grande amore. Alla fine di giugno i passaggi per la sua cima sono coperti da un tappeto continuo di rododendri e ai suoi piedi – non dalla parte della città, ma dall'altra, dove i locali adesso non vanno quasi più, temendo possibili incontri indesiderati – regna quasi la bellezza della creazione e sui prati alpestri splendono i gialli gigli montani, da cui si spande a ondate un aroma di cui non può vantarsi alcuno di quelli da giardino. All'alba i gigli si coprono di una fitta rugiada, mostrando un giallo acceso sopra la vivida erba verde sullo sfondo del cielo azzurro e all'improvviso ricordi stupito la Scrittura: "Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro" (Mt 6, 28-29), – e – perdonate me, cittadina, – sei colpito dalla precisione: in realtà nessuno in tutta la sua gloria si è mai vestito come uno di loro. Il Totur è il punto successivo del nostro percorso. Il nome del monte, presso la salita per la cima del quale alla fine, dopo dieci ore di dura strada a piedi per le pendici, montiamo il campo – è una deformazione del nome greco Theodor [18]. Su come è stato portato qui, parla in una sua intervista, registrata dalla televisione locale alla fine di aprile 2001, padre Igor' Rozin: "Secondo notizie storiche, gli abitanti del posto – i balcari – prima dell'introduzione violenta dell'Islam erano cristiani. Qui – da qualche parte in questo posto, dove ora c'è la nostra chiesa – si trovava la chiesa di san Teodoro. Abbiamo due Teodoro santi – sono Teodoro Stratelate e Teodoro Tiro [19]. In onore di quale Teodoro fu consacrata la chiesa non so, ma che ci sono testimonianze storiche affidabili è vero. Qui c'era una chiesa ortodossa di costruzione bizantina e i vecchi – quelli vecchissimi – ricordavano perfino le sue rovine prima che qui fosse costruita la città. Di generazione in generazione si è trasmessa notizia che era una chiesa cristiana". Con la nostra piccola processione – il parroco della chiesa di san Giorgio di Tyrnyauz, il capogruppo Saša e io – andiamo con l'icona della Madre di Dio di Mozdok sulla cima del Totur per pregare la Santissima Madre di Dio per il Caucaso con la benedizione del vescovo di Pjatigorsk e Čerkessk [20] Feofilakt. Non posso andare fino alla cima – andando sul valico tra le gole e guardando la città dal pendio rivolto verso Tyrnyauz (e sembra di vederla da un aereo), mi ritiro. L'amico Saša resta con me e padre Igor' va se per le rocce ripide e lo guardiamo dal valico mentre la figura nera in lontananza appare e scompare. Alla fine, appena distinguibile – biancheggia solo la stola – si alza sulla cima del Totur e noi ci alziamo sul nostro valico e sulle rocce risuona di nuovo: "Divina stella appare la Tua icona, Madre di Dio, che circondi il paese del Caucaso e sei nell'ombra dell'ignoranza la luce che illumina con la Rivelazione di Dio, che riempi di gioia gli afflitti che cercano il tuo aiuto con la grazia consolante del Figlio Tuo e di Dio, a Lui gridiamo con gratitudine: alleluia". Anastasija Rachlina, "Kavkazskaja politika", http://kavpolit.com/neizvestnyj-kavkaz/ (traduzione e note di Matteo Mazzoni) [1] Più correttamente Bol'šoj Zelenčuk, fiume del Caucaso. [2] Città della Russia meridionale. [3] Capitale dell'Ossezia del Nord, unica repubblica caucasica russa a maggioranza cristiana. [4] Qualcosa come "signore", appellativo dei vescovi ortodossi russi. [5] La sažen' equivaleva a 2,13 metri, quindi circa 8,5 metri. [6] "Čegem Superiore". [7] "Fresco" (la parola russa per "città" è di genere maschile), città della Kabardino-Balkaria settentrionale. [8] Città della Russia meridionale. [9] "Di Tver'" (città della Russia centrale), via del centro di Mosca. [10] "Čegem Inferiore". [11] Capitale della Kabardino-Balcaria. [12] Comunità islamica, ma qui "cellula terroristica". [13] Fiume palestinese presso cui gli Arabi sconfissero i Bizantini nel 636. [14] Stato islamico autoproclamato del Caucaso russo. [15] La chiesa ortodossa festeggia più volte san Nicola, non solo il 6 dicembre. [16] Città della parte settentrionale dell'Ossezia del Nord. [17] Fiume del Caucaso del Nord. [18] Sic. Più precisamente Theodòros [19] C'è anche chi suppone che si tratti della stessa persona (in greco tèron significa "soldato" e stratelàtes "portatore di lancia"), che la Chiesa Cattolica venera come Teodoro di Amasea.
[20] Capitale della repubblica autonoma di Karačaj-Circassia.

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