Non un problema ma una scelta consapevole
Quello sul celibato dei presbiteri nella Chiesa Cattolica è diventato negli ultimi cinquant’anni un dibattito costante, soprattutto in occasione di alcune anomalie e di fatti che hanno richiamato credenti e non credenti a dire la loro in merito all’abolizione o al mantenimento. Premetto che non è solo una scelta o condizione dei presbiteri, poiché anche i laici la fanno o individualmente o consacrandosi in un’istituzione laicale. Si punta solo, infatti, sul celibato dei preti e ci si dimentica delle persone consacrate come anche delle suore.
Personalmente non lo vedo un problema perché è legato a una scelta comunitaria e personale (almeno dovrebbe essere) e non a un’imposizione. È chiaro, però, se una scelta è fatta, per un principio di coerenza, deve essere portata avanti senza tentennamenti o motivazioni che annullino il vero significato del celibato. E ciò perché deve essere abbracciato con convinzione e grande disponibilità in Chi fa nuove tutte le cose, altrimenti è bene lasciare per uno status diverso.
Benché il celibato e la continenza non siano d’istituzione divina, pur tuttavia assumono un valore inequivocabile nella persona di Gesù e nel messaggio evangelico. Gesù stesso volle nascere da una donna vergine e non volle assumere moglie nella vita terrena ma scelse tra gli apostoli alcuni uomini già sposati. Nella proposta evangelica Gesù pronuncia parole chiare per cui l'«encratismo» (dal greco enkrateia sta per «continenza» o «temperanza» e vuole indicare la tendenza ascetica), anziché essere un fenomeno deviante e marginale, ci appare come espressione di una sostanziale continuità col messaggio originario del cristianesimo. Gesù esalta la scelta in vista dell’eternità: “Vi sono diversi motivi per cui certe persone non si sposano: per alcuni vi è un’impossibilità fisica, fin dalla nascita; altri sono incapaci di sposarsi perché gli uomini li hanno fatti diventare così; altri poi non si sposano per servire meglio il regno di Dio” (Mt 19,12). E in Luca Gesù rivolto ai discepoli dice: “Io vi assicuro che se qualcuno ha abbandonato casa, moglie, fratelli, genitori e figli… per il regno di Dio, costui riceverà molto di più già in questa vita, e nel mondo futuro riceverà la vita eterna” (Lc 18, 29-30). E S. Paolo elogia sia il matrimonio e sia il celibato ma invita a essere celibe come lui per svolgere la missione: “Ai celibi e alle vedove dico che sarebbe bene per essi continuare a essere soli, come lo sono io. Se però non possono dominare i loro istinti, contraggano matrimonio. È meglio sposarsi che ardere di desiderio” (1 Cor 7, 8-9). E più avanti: “Fratelli, io vi dico questo: è poco il tempo che ci rimane. Perciò, da ora in poi, quelli che sono sposati vivano come se non lo fossero…” (1 Cor 7, 29).
Nei primi tempi della Chiesa si presumeva che il presbitero o il vescovo avessero una vita familiare ma non coniugale, memori ancora delle parole di S. Paolo che motivava la scelta: “L’uomo non sposato si preoccupa di quel che riguarda il Signore e cerca di piacergli. Invece l’uomo sposato si preoccupa di quel che riguarda il mondo e cerca il piacere della moglie” (1 Cor 7,32-33).
Sulla base di questa tradizione apostolica, legge non scritta, si muove la chiesa nei primi tre secoli. Fu il Concilio di Elvira (305-306) che vietò ufficialmente ai chierici (e tra questi vescovi, presbiteri e diaconi) di avere rapporti coniugali con le mogli e di avere figli. Il Concilio di Roma del 382stabilì che vescovi e sacerdoti sposati non potessero più convivere con le proprie mogli, ma la norma fu disattesa nei secoli successivi. Il Sinodo di Pasqua del 1049 a Reims ribadì severamente la regola del celibato.Mail celibato ecclesiastico divenne effettivamente vincolante solo con il Concilio di Trento (1545-1563), che ne sancì, in forma inequivocabile, l'obbligo per tutti coloro che dovessero essere ordinati presbiteri. Il Concilio Vaticano II nella Presbyterorum Ordinis al n. 16 impone il celibato a tutti coloro che si avviano a ricevere gli ordini sacri, eccetto per i diaconi già sposati. Il Magistero dei romani pontefici, a partire da Siricio (?-399), passando per Gregorio VII (1023-1085), Urbano II (1040-1099), Alessandro VII (1899-1667) fino ad arrivare a Paolo VI e a S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI confermano tale linea. «Il celibato sacerdotale – scrive Paolo VI -, che la Chiesa custodisce da secoli come fulgida gemma, conserva tutto il suo valore anche nel nostro tempo» (Enciclica Sacerdotalis Caelibatus n. 1). Papa Giovanni Paolo II ribadisce più volte le motivazioni del celibato: perché il prete deve avere maggior tempo da dedicare alla parrocchia e alla comunità, non deve pensare ai beni terreni e questo nell'ottica di avere un figlio sarebbe ingiusto. Non si può, inoltre, servire bene due padroni, come dice Cristo: “Perché, o amerà l’uno e odierà l’altro; oppure preferirà il primo e disprezzerà il secondo” (Mt 6, 24).
Ciò prevede una scelta alla vita presbiterale in età matura, una formazione permanente a favore dell’opzione sacerdotale, all’affettività e all’equilibrio e questo non solo nei candidati al presbiterato ma anche nei presbiteri maturi. Include un continuo richiamo alla santità e un maggiore controllo, da parte degli organi superiori, perché il ministero sia vissuto in modo coerente e perseverante, a testimonianza della sobrietà che ha caratterizzato Gesù e deve caratterizzare chi rappresenta l’alter Christus.
Comporta anche una vita di fede e di orazione da parte del consacrato perché l’aiuto viene solo da Dio: “Posso far fronte – scrive Paolo - a tutte le difficoltà perché Cristo me ne dà la forza” (Fil 4, 12).
Non basta, anche la comunità cristiana è coinvolta nell’aiutare il proprio vescovo, parroco e consacrato/a a essere fedele alle scelte. La comunità deve fare sentire il suo affetto per colmare, a volte, il senso di vuoto umano e di scoramento, memori che chi è veramente innamorato di Dio è da Lui ripagato. Questo per la comunità è un obbligo umano, sociale e morale. Colui che è stato “unto” dallo Spirito Santo non è solo in questo cammino ma deve sentire l’appoggio di essa, alla quale riversa, a sua volta, come in una osmosi, tutti i suoi doni e l’Amore di Dio: è il vero amore teologico che ne fa della Chiesa la sposa di Cristo e del suo consacrato.
SALVATORE AGUECI