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Il cimitero di farfalle

Da Fabry2010

Il cimitero di farfalle

di Franca Mancinelli

Su un prato d’erba medica una bambina inseguiva le farfalle con le mani di retino aperte nell’aria oppure le prendeva per le ali, quando si fermavano sui fiori. Strette tra il pollice e l’indice, come un velo di zucchero colorato, avrebbe potuto mangiarle. Ma le bastava parlarci, muovendo appena le labbra o mormorando nel pensiero, fino a che queste, posate sulla spalla, non volavano più via: si erano affezionate a lei. E invece non molto tempo dopo, erano foglie indebolite e inerti. Dopo alcuni giochi in cui, come assonnate o addomesticate, rispondevano a tutti i suoi desideri, la bambina capiva che era venuta l’ora di seppellirle, nel sottoscala dove, dentro una corolla di sassi bianchi, ramoscelli incrociati e fiori mosci, si era formato un piccolo cimitero. Poi qualcuno le venne a dire della polvere che fa volare. O forse se lo disse da sola, nello stesso modo in cui era venuta a sapere che le farfalle, per affetto, si fermavano su di lei invece che sui fiori. La polvere restava sulle dita di chi toccava le farfalle: loro perdevano la leggerezza, s’intristivano e poco dopo s’addormentavano per sempre. Appena lo seppe smise il gioco e il cimitero sotto le scale scomparve, ricoperto dall’erba. Un pomeriggio però le sembrò di vedere, nella luce tesa come il filo per i panni, una bambina sul prato d’erba medica che rubava la polvere dalle ali azzurre e poi se la cospargeva sui palmi delle mani, sui polsi, lungo le braccia e su fino alle spalle, e iniziava a correre veloce, spiccando ogni tanto un salto, come un piccolo aeroplano che tenti il decollo.

Le ali delle farfalle non si potevano toccare, come gli arcobaleni. Un giorno una bambina più grande che era con lei sul balcone gli aveva detto che c’era l’arcobaleno e, mentre lei lo cercava nell’azzurro senza vederlo, le aveva indicato il luogo preciso in cui doveva restare, la linea da non superare perché quei colori restassero sospesi. Le tornò alla mente una sera di quando era più piccola e, prima di dormire, aspettava che la madre venisse a salutarla. Era settembre e lei si era posata sul copriletto come una farfalla, con le ginocchia aperte. Quando la madre la vide le disse che non era più tanto piccola da potere stare in quel modo, che anche in spiaggia, ormai, non andava più senza costume e anche quando giocava doveva stare composta. Al suo perché rispose che non si fanno vedere le mutande e che i bambini non escono dall’ombelico. Silenziosamente si richiuse a dormire, nel baco dorato dell’estate. Le sue parole avrebbero nascosto la traccia sottile di una tomba di farfalla. Quando tornò all’asilo si immerse nello sciame degli altri bambini, in quel disordine dove nessuno si sente solo. Soltanto un giorno le mostrarono un bambino che mangiava nel refettorio mentre tutti gli altri erano nella sala, sbattendo in coro le forchette e i bicchieri sui tavoli colorati. Glielo mostrarono ad esempio perché lui, con la compostezza e la calma di un adulto, mordeva un pezzetto di biscotto e poi beveva un sorso di caffellatte, continuando così fino alla fine della colazione. Passavano i mesi con i grembiuli gialli, rosa e azzurri che ruotavano in una giostra, come petali illuminati; un ritornello portava uno dei bambini a turno nel centro del cerchio: per qualche minuto in lui si gravitava tutta l’attenzione, poi da stame tornava nella corolla del fiore.

Presto venne l’ultimo anno, quello in cui si parlava molto della scuola, di quello che avrebbero imparato e di come avrebbero dovuto comportarsi. Dissero che sarebbero stati tutto il tempo in un’aula, ognuno seduto al suo posto, con i libri e i quaderni, come facevano adesso per alcune ore, disegnando o riempiendo di colori le figure. Nella sua fronte entrò un pensiero improvviso, come uno di quegli insetti che entrano nelle case e restano poi a lungo prigionieri delle stanze, a volte morendo prima di tornare da dove erano venuti. Si chiese se si sarebbe visto, ora che ognuno era fuori dallo sciame, fermo in un rettangolo entro il quale rispondeva al suo nome, che lei era diversa. In quell’ordine, in quella linearità di fronte ad un adulto, forse avrebbe dovuto nascondersi. Ma la sua colpa era già così sprofondata in lei da confondersi nella sua quiete. Molte farfalle che aveva preso tra le dita erano sepolte, ormai invisibili i perimetri di sassi bianchi, dissolte nella terra le ali, nel sottoscala.



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