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E anche per me, che soddisfo solo una delle due condizioni - non ho quell'età - è un nome che suona solo vagamente familiare. Come un anziano parente che da bambino hai fatto appena in tempo a incontrare, prima che se ne andasse. E che forse non hai nemmeno visto, solo che i ricordi si confondono con i desideri, con le rimozioni, con le parole che rimangono sospese intorno a una tavola, con le fotografie che forse ti sono passate sotto gli occhi.
Il Gratta era un clown. Un uomo di circo che per una vita portò in giro il suo piccolo, modestissimo spettacolo. In giro, si fa per dire, poi. Le sue tournée erano le periferie, i quartieri popolari, gli spazi ancora lasciati liberi dai centri commerciali e dalle altre colate di cemento.
Era un circo di poche cose: il giocoliere, la contorsionista, qualche numero da avanspettacolo. A volte nemmeno il tendone. Un circo da tempi di guerra, o da dopoguerra di macerie e stenti. Ma per i fiorentini il Gratta era il divertimento, la possibilità di evasione, la risata libera, finalmente, dopo l'incubo dei bombardamenti.
Era il circo che ti veniva incontro per riscattare una giornata storta, per alleviare le preoccupazioni, per strappare una risata a bambini con niente in tasca, per sciogliere la timidezza di una coppia alla sua prima uscita.
Questo libriccino di Polistampa, in gran parte fotografico, ci racconta Gratta e il suo circo, accompagnandoci così per mano in un tempo, come spiega Stefano De Rosa, povero ma autentico che non richiedeva difficili giochi di prestigio con la propria identità.
Poi, naturalmente, arrivò la televisione e tolse ogni incanto agli spettacoli del Gratta. Gli italiani divennero più ricchi e più esigenti. Più ricchi e anche più poveri di altre cose, certo.
E io che non ho mai avuto modo, ho nostalgia per quelle panche di legno, per quelle serate con il cocomero o lo zucchero filato, per quelle piazze che un clown poteva ancora trasformare con un tocco di inspiegabile magia.
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