Pensiamo spesso di essere libere. Di poter decidere della nostra vita, dei nostri pensieri e delle nostre azioni, perché abbiamo studiato, siamo adulte, sappiamo dove stiamo andando. Controlliamo nel dettaglio ogni singolo muscolo del nostro corpo, scegliamo delle scarpe nuove, ci lasciamo andare ad un taglio di capelli nuovo. Noi non siamo come le altre, abbiamo rapporti di parità assoluta coi maschi della specie, siamo “emancipate”.
Poi succede che un maschio della specie fa un commento sul fatto che abbiamo messo su peso, o sui capelli che erano meglio prima. E noi, nella nostra piena e fortissima libertà, incassiamo il colpo senza fiatare, sorridendo magari, e illudendoci che siamo abbastanza sicure di noi stesse da poter comunque sfoggiare le curve di sempre o il nuovo sbarazzino look tricotico. In realtà non è esattamente così. Il colpo è incassato, ma da qualche parte c’è un livido. Siamo sicure e sorridenti, finché allo specchio non compare la nostra immagine, così inappropriata, adesso. Il giudizio del maschio della specie ci influenza molto più di quanto avessimo sperato. E quindi? A quel punto, con molta discrezione, ci si iscrive in palestra, si eliminano i carboidrati dalla dieta, si corre dal parrucchiere per rimediare all’insano gesto del vecchio taglio. Oppure si comprano creme antirughe, tinture, guaine snellenti, e altre medievali torture che ci assicureranno un aspetto migliore, un corpo immune alle critiche, desiderabile.
Non ho mai pensato che fosse offensivo e malato il giudizio della quasi totalità della società sulle mie oscillazioni di peso. Non ho mai davvero riflettuto su quanto fosse indelicato da parte di conoscenti, parenti, amici e amanti, sottolineare a più riprese la differenza, evidente anche a me, tra il mio corpo adolescente (taglia 44 scarsa) e l’attuale (non chiedetemelo). Non ho mai pensato di poter essere vittima del giudizio altrui, io che ho studiato, io che ho sguazzato nel pensiero “libero” fin dalla culla, che mangiavo pane e femminismo, che di nascosto rubavo i libri di filosofia di mia madre. E invece lo ammetto. Mi faccio prendere da attacchi di panico nei camerini dell’Oviesse, quando il vestito perfetto su di me sembra un sacco di patate. Mi sento a disagio se si va al mare tutti insieme, e implicitamente, intimamente, quando guardo il mio corpo nello specchio, penso che non abbiano poi torto i maschi della specie che non mi scelgono per il mio brutto corpo, così lontano da quello della modella Intimissimi.
Adesso ammettetelo. Ci siete dentro anche voi. Dentro lo specchio, dentro il circolo vizioso del corpo perfetto, dentro le fobie sociali, dentro le risatine dietro la gente cicciotta.
Il fatto è che l’acquisto di un vestito sembra la cosa più semplice e priva di congetture o significati politici che ci possa essere, ma non è così. Scrive Linda McDowell (1995)* che il corpo è il sito primario dell’esperienza sociale, e i vestiti sono il mezzo per disciplinare il corpo. Vestirsi in un certo modo, infatti, risponde all’esigenza di partecipare ad una certa attività sociale, a rispettare una regola. Niente di più lontano dalla libertà, dunque.
Basta pensare alla divisa di hostess, camerieri, commessi, e simili. Basti pensare al modo in cui ci vestiamo per andare ai colloqui di lavoro. Qualcuno ce lo impone? No. O forse sì, ma è tutto così ben sciolto nel cocktail della socialità, che non ce ne rendiamo conto.
Ecco, allora, che acquista un senso ben preciso, in questa ottica di controllo dei corpi, la presenza di un reparto apposito per le taglie “forti”. È il modo che la socialità trova di suggerirci che avere una taglia 50 significa essere fuori dal giro, fuori dallo standard, fuori dal club delle modelle Intimissimi. Riflettiamoci.
Potremmo addirittura scoprire che il corpo, sottomesso e obbligato da forze invisibili e spesso inarrestabili, può diventare, anche tramite l’abbigliamento, il nostro personale mezzo di ribellione: “dress had became a more pleasurable performance that could be used to create or subvert a particular image”. (Linda Mc Dowell, 1995)*
*in Bell D., Valentine G. (1995), Mapping desire: geographies of sexuality, London, Routledge