
La carriera cinematografica del grande (e troppo spesso dimenticato) Douglas Sirk non poteva che concludersi con uno dei suoi clamorosi, fiammeggianti melodrammi. "Lo specchio della vita" è un capolavoro sontuoso, difficile e pessimista, con una messa in scena che rasenta la perfezione: il film pare continuamente trattenersi fino a togliere il fiato, per poi esplodere nella grandiosa e straziante sequenza finale, dove Mahalia Jackson canta ai funerali colpendo il cuore dello spettatore e della famiglia "allargata" di Lana Turner. Racconto dolente di rimpianti e passioni, "Lo specchio della vita" è in realtà la recitazione come modus vivendi, dove il melodramma diviene condizione esistenziale. La forma pura, satura, enfatica, scintillante del mèlo rivela infatti un tempo che scorre veloce e irrefrenabile, amplificando tutte le parole non dette, tutti i silenzi prolungati e i dispiaceri di una volta che con gli anni producono rancori e distanza. Il colore, denso, saturo, vivo, diviene il movimento furente e distruttivo dell'immagine stessa. E lo spettro della morte che pareva così lontano aleggia alato per tutta la durata del film.






