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Il concetto di “sacrificio” vale solo per i ceti produttivi. Non vale per la casta, che ai privilegi non rinuncia

Creato il 16 aprile 2012 da Iljester

Il concetto di “sacrificio” vale solo per i ceti produttivi. Non vale per la casta, che ai privilegi non rinuncia

Prendiamo un politico, un dirigente, un diplomatico, un funzionario o un magistrato di carriera. Le loro retribuzioni sono sproporzionate rispetto al reale apporto alla economia italiana. La loro capacità di produrre ricchezza è nettamente inferiore a quella dell’imprenditore che non solo produce reddito per sé, ma procura e procaccia lavoro e reddito per gli altri (i dipendenti). Certo, anche i soggetti sopra indicati comunque sono essenziali per la società, ma la società dovrebbe attribuire loro una retribuzione adeguata non già al loro status, bensì al loro concreto contributo al benessere sociale. Perché è questo il nocciolo del discorso: lo Stato italiano proporziona la retribuzione non in base alla produttività del proprio dipendente pubblico, bensì in base allo status. Più questo è alto, e più alta è la retribuzione. Poi, questi soggetti possono lavorare di più o di meno, o non lavorare affatto, che il dettaglio è irrilevante ai fini retributivi (e di status e/o tutele).

Ma ammettendo pure che il quadro retributivo delineato sia accettabile, facendo leva magari su ragioni di responsabilità (il che è una giustificazione stiracchiata, visto che queste figure burocratiche spesso sono sostanzialmente deresponsabilizzate), le ragioni anzidette perdono vigore nel momento in cui, dinanzi a una grave crisi economica e finanziaria, lo Stato necessita di risparmiare e recuperare denaro per pagare i debiti e le spese necessarie per mantenere un accettabile livello di benessere per l’intera collettività. A questo punto, infatti, è necessario che chi prende di più e soprattutto chi prende in modo sproporzionato debba rinunciare volontariamente o meno al reddito in eccesso che magari incassa in base al proprio status. Se così non fosse, si creerebbe (e si crea in effetti) una situazione paradossale: che chi non produce o apporta un valore minimo al benessere collettivo brucia più risorse di quante ne bruci chi invece è un valore aggiunto nella creazione di risorse.

Inaccettabile. Perché secondo il principio di solidarietà, che rende coesa una nazione e una società, ognuno contribuisce al benessere della nazione «in ragione della [propria] capacità contributiva». Ora questo concetto però non può essere visto solo in termini di pagare (i tributi), ma anche in termini di proporzionalità del reddito prodotto rispetto al concreto apporto al benessere collettivo, soprattutto ogni qual volta la proporzionalità sia fondamentale per dirottare la spesa pubblica verso i settori che producono risorse e che magari si trovano in difficoltà in ragione della crisi economica e finanziaria.

Ma faccio un esempio che potrà chiarire il concetto. Non sono un esperto di biologia, ma credo sia noto a tutti che quando il fisico di una persona è sottoposta a stress motorio, magari per una corsa, il cuore accelera il suo battito per pompare più sangue nelle zone periferiche, più soggette alle sollecitazioni della stanchezza e dunque maggiormente bisognose di ossigeno. Se il meccanismo anziché dirottare ossigeno verso quelle zone le dirottasse nelle zone del fisico inutilizzate nello sforzo (magari le mani), allora il nostro corpo probabilmente verrebbe danneggiato e cadrebbe a terra.

Lo stesso accade in una società. Quando la crisi morde, lo Stato deve ossigenare i settori vitali, quelli che producono, quelli che sostengono la società, e per farlo deve tagliare le spese in quei settori non essenziali o meno essenziali. Che senso ha, dunque, pagare un direttore generale 400.000 euro all’anno, quando il 70% di quel denaro può essere dirottato per sostenere un imprenditore che dà da lavorare a 10 o 20 dipendenti? Che senso ha pagare 500 milioni di euro ai partiti politici, quando quei soldi potrebbero ben essere utilizzati per alleggerire il carico fiscale sulle imprese o sul lavoratore o su entrambi?

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Il concetto di solidarietà nel nostro ordinamento è anomalo, perché fa ricadere la solidarietà esclusivamente sui ceti produttivi, sulle imprese e sui lavoratori autonomi, escludendo di fatto da tale concetto politici, magistrati, diplomatici, funzionari e dirigenti amministrativi, per i quali vi è una sproporzione eccessiva tra il loro utilizzo di risorse e la produzione di risorse. In altre parole, il loro “consumo di benessere collettivo” è maggiore (se non sproporzionato) rispetto alla loro capacità di produrre benessere collettivo (che in alcuni casi è nullo).

Così ecco — e qui concludo — che il Governo, espressione dei poteri e delle istituzioni rette da queste figure burocratiche, anziché intaccare privilegi e rendite sproporzionate, preferisce far pesare il sacrificio su coloro i quali invece dovrebbero essere alleggeriti del sacrificio in virtù o in ragione della loro capacità di produrre risorse e dunque di creare i presupposti per combattere la crisi medesima. È un chiaro paradosso: chi produce risorse viene gravato degli effetti della crisi e ne paga tutti i costi, godendo in minima parte di quelle risorse dirottate sui settori improduttivi o scarsamente produttivi (burocrazia); chi invece non produce risorse o ne produce poche (burocrazia) è esente da qualsiasi dazio e continua a beneficiare di uno status di reddito indifferente rispetto alla crisi, bruciando le risorse sottratte al benessere collettivo. È come se a un certo punto — tornando all’esempio del fisico stressato dalla corsa — il cervello decidesse che il sangue ossigenato finisca in prevalenza nel cuoio capelluto anziché nelle gambe. O peggio, è come se a un certo punto, il nostro corpo, davanti a una malattia (la crisi economica), anziché attaccare il virus o i batteri (gli speculatori), uccidesse i propri anticorpi o li intralciasse nella lotta all’infezione (la produzione), riservando le energie per incrementare la crescita dei capelli (la burocrazia).

di Martino © 2012 Il Jester 


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