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Il Conte di Monte Cristo: qualche riflessione

Da Marcofre

 

ritratto alexandre dumas

Nello scorso mese di dicembre ho iniziato la lettura de “Il conte di Monte Cristo” di Alexandre Dumas. Ora l’ho terminata. Questo colossale scrittore non può che andare a braccetto con quell’altro, Charles Dickens. Però mi sono domandato se dal suo modo di affrontare la storia, uno scribacchino come me potesse imparare qualcosa. Certo, sono ormai un caso disperato, però…

L’eroe giovane e ingenuo

Proviamo a ragionare, e vediamo i “mattoni” con i quali il francese scrive la sua storia. Piccola avvertenza: non attenderti chissà cosa…
Dumas parte da qualcosa di semplice: il protagonista è un giovane ingenuo che si trova ficcato in qualcosa più grande di lui. Sarà il buon Faria anni dopo, nelle segrete del castello d’If, a svegliarlo, a mostrargli quanto è stato superficiale, cieco: insomma stupido.
Però il lettore ha sempre simpatia per chi finisce stritolato dagli ingranaggi del potere, ed è perciò ben disposto nei confronti di simili storie. Perché siamo persuasi che alle nostre spalle, sia all’opera qualcosa che sfugge completamente al nostro controllo. Chissà, forse è qualcosa che ci arriva dal periodo della savana, quando eravamo un po’ scimmie e un po’ uomini e i felini avevano noi come cibo. Quel sentimento di incertezza, che si trasforma in inquietudine, e ha l’alito della paura; e che ci attanaglia all’improvviso anche quando siamo in metropolitana, o sull’autobus: ci arriva da quei lontani giorni…
L’espediente dell’ingenuo e innocente vittima di giochi a lui estranei, se usato con la dovuta perizia, può produrre qualcosa di interessante.

La resurrezione di Dantès

Altro dettaglio: la “resurrezione”. Il protagonista, per anni nelle tenebre della prigione, infine fugge. Non è più quello di prima, ovviamente. La prigione ne ha cambiato la fisionomia, ne ha plasmato l’anima, e Faria lo ha educato. Come il seme gettato nella terra muore e tuttavia torna a vita ma con una veste nuova, anche Dantès torna a vivere ma è un altro. Conosce, sa. Quella morte gli ha insegnato tanto.
E quegli anni imprigionato nel Castello d’If, morto benché vivo, non lo lasceranno più (e come potrebbero?). I travestimenti non sono solo il mezzo per portare a termine la propria vendetta. Rendono visibile, tangibile anzi, la prigione che Dantès ha sempre con sé. Sinbad il marinaio, l’abate… Dietro a queste figure, si nasconde un uomo in cerca di vendetta. Così come le mura di una prigione celano gli uomini, i travestimenti nascondono la vera natura di Dantès.

Il potere della ricchezza

E poi c’è il tesoro. Immenso. Gli permette di comprare un bastimento carico di merce per salvare il suo vecchio armatore Morrel, vicino alla bancarotta. Forse l’aspetto meno “convincente” del romanzo? Può darsi: con una fortuna tanto colossale, l’intera vicenda diventa troppo facile, si dirà.
In parte è così. In realtà Dumas fa molto di più.
Torniamo ai travestimenti di Dantès. Inganna quanti lo hanno tradito e condannato. Ma costoro che pure conducono una vita alla luce del sole, e sono potenti e riveriti, non indossano pure essi delle maschere? E dietro di esse, non ci sono le peggiori cose?
Il mondo che Dumas raffigura è storto senza rimedio, e l’unico sistema per riportare un po’ di ordine non è rivolgersi alla legge degli uomini (corrotta e dalla parte dei forti), ma a quella della vendetta. E non può essere diversamente. Dantès ha avuto fiducia negli uomini, persuaso che essere innocente e parlare con chiarezza, fossero criteri sufficienti per tornare a essere un uomo libero. Non è servito a niente. Allora anni dopo Dantès entra in azione per riportare giustizia in un mondo dove la giustizia si fa solo per rendere gli scaltri, più potenti. Ma che ignora i derelitti e i poveri.
La visione di Dumas è spaventosa. Se “Il conte di Monte Cristo” sembra un romanzo troppo lungo, e un polpettone romantico e ottimo per le masse, si rivela essere un attacco alla società, che per garantire ordine e la scalata al successo, non esita a fare a pezzi chiunque si metta in mezzo.
Essere onesti, trasparenti, non giova: anzi, è pericoloso. L’inganno, la maschera, e il denaro soprattutto, sono gli unici mezzi che permettono ai deboli di sopravvivere. E ci sarebbe anche dell’altro: Dantès sembra dire (e dice) che un simile mondo non ha spazio per il Dio del Nuovo Testamento, ma solo per quello del Vecchio, duro e animato da vendetta. Perché chi si affida alla Provvidenza, chi spera, è perduto; chi si decide alla forza e all’inganno, alla violenza, vedrà trionfare la giustizia.

La lezione di Alexandre Dumas


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