Lost in Translation: un giapponese a Roma
Avete presente la sensazione di immergersi in un luogo in cui ci si trova per la prima volta? Non si ha la minima idea di come sarà quell’angolo che andremo a scoprire, né di dove andremo a mangiare, né del cosa faremo dopo o di cosa sarebbe stato meglio scegliere come prima tappa, quell’inaspettata sensazione di vivere qualcosa che si è sempre visto magari in uno scatto altrui, su un catalogo, o in un’altra qualsivoglia immagine? Quel piacevole turbamento che proviene dal non sapere bene cosa ci aspetta, né la strada da intraprendere per il miglior appagamento, ma che alla fine va bene così, assaporare la scoperta inattesa raddoppia il godimento del viaggio, qualsiasi forma questo abbia. Indubbiamente le nuove funzionalità delle tecnologie ci facilitano la vita, ci aiutano a seguire la strada più veloce, a scegliere il ristorante con più giudizi positivi o a trovare il negozio con quell’abitino che cerchiamo da anni.
Ma queste facilitazioni non ci hanno un po’ troppo viziato, corrodendo anche un po’ di quel coraggio di perderci nel mondo, parafrasando il pezzo di castoldiana memoria?
S’intende, il coraggio è ben altro. Non siamo qui a sindacare l’etimologia della parola o le sue sfaccettature all’interno dell’esistenza di ciascuno di noi. Assolutamente. Ma l’adrenalina da viaggio, il coraggio di spogliarci dei nostri pregiudizi, degli abiti che ci siamo costruiti per adattarci al nostro contesto quotidiano, il coraggio di mostrare il nostro vero essere, pronto ad accogliere le sorprese che possono derivarci da queste nuove esperienze, questo tipo di coraggio sta svanendo piano, sovrastato da una sorta di pigrizia che provoca l’assopimento della creatività e dell’intraprendenza di ciascuno di noi.
Quell’”App” che ci conduce per mano, quella voce impertinente che ci guida per stradine sterrate sconosciute, il programma che ci geocalizza e inquadra il “caos” sconosciuto che ci circonda, queste innovazioni non ci hanno fatto perdere quella dose di spavalderia che, almeno al di fuori dell’ordinarietà quotidiana, ci potevamo permettere?
Il piacere di avere una mappa tra le mani, una guida fresca di stampa o prestata da amici, con appunti di viaggio, macchie di caffè e scontrini, quella sicurezza tattile che spesso non consultiamo ma che sappiamo di aver in borsa, anche questa ancora di salvataggio in caso di disorientamento totale è stata prevaricata da giganti tecnologici, privi di qualsiasi emozione umana derivante dal piacere del mettersi alla prova.
I turisti sono sempre più spesso presi dalla mappa interattiva dello smartphone che hanno tra le mani piuttosto che dalla maestosità della città in cui si trovano. Oppure la richiesta di indicazioni: si andava elemosinando una dritta all’edicola, dal fornaio o dal bar dell’angolo, biascicando parole inventate in una lingua non nostra. Ora non cerchiamo più la faccia che ci sembrava più simpatica, quel volto che avrebbe anche, chissà, potuto diventare un ottimo cicerone e sherpa insostituibile per affrontare la città. No, ora puntiamo il ragazzetto con l’iphone, sappiamo che nel giro di quei pochi secondi utili alla connessione ci indicherà la giusta via.
Sono piccolezze, impercettibili piaceri, sorrisi inaspettati o fregature che si erano messe in conto prima. Ma sono queste piccole gioie, derivanti dal coraggio di abbandonarsi al non conosciuto, che, alla fine dei conti, hanno costruito l’essere di ciascuno di noi. E valgono più di mille App scaricate durante l’ansia da prestazione pre-partenza.
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