Il consueto appuntamento di uno dei programmi settimanale di punta di Rai3, Chetempochefa ospita Patrizia Moretti, e il giornalista Rai Filippo Vendemmiati autore del miglior documentario sulla storia di Federico Aldovrandi, dal titolo “E’ stato morto un ragazzo” che verrà trasmesso prossimamente su Rai3. Vincitore del David di Donatello 2011, il racconto filmico si snoda attingendo da numerosi documenti originali, spezzoni d’inchiesta e filmati d’archivio, ripercorre le ricostruzioni fatte dalla polizia, le testimonianze di amici e conoscenti sulla notte del 25 settembre 2005.
Fabio Fazio rivolto al giornalista: “Da dove sei partito per il tuo lavoro?”. “Siccome volevo il consenso della famiglia – ha risposto Vendemmiati – andai a casa loro, Patrizia mi chiese se volevo vedere la stanza di Federico, dove ho ambientato l’inizio del documentario. “Tutto era rimasto come allora, lo zainetto appoggiato alla scrivania, il letto fatto…tutto fermo. E’ stato un impatto emotivo devastante. Ero lì con la mia penna ed il mio taccuino e ho capito che dovevo ridare dignità, a questa famiglia straordinaria e a Federico, e ho fatto il film”.
Questo dunque lo spunto per il film che vede come protagonista la storia di Federico Aldrovandi che una notte incontrò la polizia… morto a 18 anni. I giornali locali scriveranno di un malore fatale.
La sentenza di primo grado ha condannato a tre anni e sei mesi gli autori di questo omicidio, quattro poliziotti che senza una ragione reale hanno picchiato a morte il ragazzo: “Tanti giovani studenti beneducati e di buona famiglia – ha scritto il giudice Francesco Maria Caruso –, incensurati e di regolare condotta, con i problemi esistenziali che caratterizzano i diciottenni di tutte le epoche, possono morire a quell’età. Pochissimi, o forse nessuno, muore nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi: all’alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di Polizia, senza alcuna ragione effettiva”.
Già e proprio su questa ultima frase cade la riflessione, c’è bisogno di verità e giustizia, perché questa è una storia senza logica, una vita strappata con estrema ferocia… una ferocia assurda, anche solo da immaginare. Rimane inalterato il sentimento che induce a credere nelle istituzioni, ma diventa necessario allontanare quegli individui dal manganello facile che umiliano con le proprie azioni, sia le istituzioni, sia tutti quei poliziotti e carabinieri onesti che giorno per giorno, fanno il loro dovere e rischiano la vita.
Assurdi anche i termini utilizzati in questo processo. Si è parlato di incontro, scontro, collisione. Di fatto i poliziotti, hanno ecceduto nell’uso della forza, su questo non ci piove, non ci sono attenuanti. Ma non basta, la vittima è stata definita: ubriaco, tossico, infisicato, palestrato, disturbato mentale, extracomunitario… È stato uno dei poliziotti, a processo, a dire “lo vedevamo che ringhiava, ci è sembrato un extracomunitario”. Se lo fosse stato – è l’amara constatazione di Vendemmiati – oggi non sapremmo veramente nulla”. Il ragazzo aveva bevuto e l’esame autoptico rivelerà anche la presenza di ketamina ed eroina. Il ragazzo aveva esagerato un pò, ma di certo ciò non giustifica quello che è accaduto in seguito.
La polizia dirà che il ragazzo è morto di overdose, che urlava perché eccitato dal mix di alcol e stupefacenti. Gli esami hanno dimostrato che l’assunzione di droghe è avvenuta, ma la quantità non era tale da giustificare un overdose e comunque non è un motivo per un pestaggio con calci e ginocchiate al punto da schiacciare lo scroto di Federico.
Nessuno vuole prendersela con le forze dell’ordine ma in questo caso ci sono responsabilità che vanno riconosciute, anche alla luce della testimonianza oculare della camerunese Anne Marie Tsegue, premiata per il suo coraggio e il senso di civiltà: “una persona è a terra, con una poliziotta sui piedi…con questo bastone che batte il ragazzo, un’altro sulla coscie, un altro è vicino alla macchina, lo picchia, lo tempesta, lo picchia tanto” e prosegue affermando di aver sentito la poliziotta dire: “Moderate c’è una luce accesa, moderate!”
Accanto al regista del film, siede una madre immensamente coraggiosa che da anni porta dentro un dolore atroce, quello della morte assurda, imprevista, inspiegabile di suo figlio. Alla domanda del conduttore: “le chiedo che cosa le ha dato la forza di andare avanti”, risponde con un tono deciso: “L’amore per il proprio figlio, l’amore per cui ogni mamma è disposta a lottare. Nel nostro caso c’è poi un’ulteriore esigenza di verità e giustizia: chi ha tolto una vita non può restare impunito”.
Dunque un film duro aspetta lo spettatore, un film per capire dov’è la coscienza di questi poliziotti, padri o semplicemente esseri umani. Su questa vicenda prevale il dolore, la rabbia e la voglia di giustizia. Non possiamo sospendere la democrazia. Non possiamo permetterci uno Stato di assassini in divisa. Non possimo accettare che dei poliziotti siano condannati per omicidio colposo. Non dobbiamo dimenticare le migliaia di poliziotti onesti che non hanno nulla in comune con i “quattro” di Ferrara. Dobbiamo credere in una giustizia che appartiene all’intera collettività.
Le parole conclusive dell’intervista sono scritte dalla madre, in una lettera contenuta nel film: “Scrivo la storia di quel che è successo a Federico, mio figlio. Non scriverò tutto di lui, non si può raccontare tutto di una vita, anche se di soli 18 anni appena compiuti. È morto il 25 settembre, il giorno di Natale sono stati 3 mesi. Ho sempre pensato che sopravvivere ad un figlio fosse un dolore insostenibile; ora mi rendo conto che in realtà non si sopravvive. Non lo dico in senso figurato, è proprio così: una parte di me non ha più sorriso, luce, futuro, perché il respiro, la luce e il futuro sono stati tolti a lui”.