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Il corpo e Facebook

Da Lepicentro
Nei primi anni novanta, ero un appassionato di giochi di ruolo. In particolare ce n’era uno (e mi sa che esiste ancora) che si chiamava “Cyberpunk 2020” ed era ambientato nella fantascienza  narrativa creata da William Gibson e Bruce Sterling. Solo dopo anni apparve la trilogia di “Matrix” su grande schermo. Il tema più intrigante di quel gioco di ruolo era la realtà virtuale e i giocatori potevano impersonare hacker che si connettevano alla rete fisicamente, attraverso dei cavi abbracciati al loro sistema nervoso che sbucavano direttamente dal corpo. A ricordarlo oggi, sembra una novità da poco, ma all’epoca era molto figo. Non mi sembra che ci siamo andati tanto lontani. Mi spiego.Prendiamo Facebook: i contatti che puoi avere con le altre persone sono “virtuali”, cioè non sono “di persona”. Le conoscenze di altre persone avvengono attraverso la visione di foto, la lettura di descrizioni scritte, le conversazioni mancano del timbro della voce, delle posture e di tutto il corollario non verbale del nostro comunicare: a buon diritto quindi possiamo definire perciò questi scambi “virtuali”. Poi succede che due persone si danno appuntamento davvero, live. Ecco che entra in scena il corpo: come per gli hacker del cyberpunk, la fisicità è collegata alla virtualità, i cavi sono le nostre mani sulle tastiere, il mutuo scambio tra questo due mondi diventa la nostra vita. Ed è proprio qui l’aspetto secondo me più interessante, antropologicamente dirimente tra un’era pre-virtuale e post-virtuale: non c’è più il confine, non c’è un momento in cui ci si “stacca” dalla rete, dai social network, raggiungibili tramite dispositivi portatili sempre a portata di mano. I nostri “amici su Facebook” li abbiamo interiorizzati, potremmo, in molti casi di fruitori abituali, citare a memoria tutte le foto postate in rete e pure quali tags hanno su, chi ha detto cosa: “ti ho letto su Facebook”, “ci becchiamo su Facebook”. In sé la cosa non è poi tanto male, l’importante è esserne consapevoli. Nel gioco di ruolo, tu che impersonavi un hacker sapevi perfettamente che stavi collegando il tuo corpo ad una macchina da comunicazione, da esplorazione, e ne conoscevi tutti i rischi: la fine più probabile che potesse fare un hacker in quel gioco era ritrovarsi col cervello “fritto” da un virus rintanato in qualche difesa di un database che aveva come effetto una manipolazione hardware del computer dell’hacker, in modo che la corrente sbucasse potente dai cavi su su fino al corpo. Nell’epoca dei social network la faccenda si fa più sottile, meno evidente: i cavi non ci sono, ma i rischi di friggersi sì. Quando si dice questo, subito in molti fanno la faccia schifata e snobbano la questione, liquidandola come la solita ramanzina sulla pericolosità dell’uso della tecnologia, di solito fatta da chi la tecnologia non sa nemmeno dove sta di casa. E a volte è vero. Ma varrebbe la pena comunque interrogarsi se sia la rete ad averci irretito oppure siamo noi i pescatori protagonisti del nostro navigare virtuale.Perché nel primo caso non mangeremo mai pesci, riusciremmo con grossa difficoltà ad individuare il confine tra virtuale e reale e a varcarlo da una parte all’altra solo quando ne abbiamo voglia (e non  bisogno), quindi anche ad incontrare dal vivo persone senza avere un continuo rimando a come veniva “su Facebook”. Nel secondo caso, invece, i pesci ce li mangiamo, li digeriamo, li facciamo nostri e ne sfruttiamo le proprietà energetiche: il social network diventa allora uno strumento efficace per gestire i propri contatti, le proprie amicizie, per farne di nuove e non uno scudo dietro cui parare le proprie paure, le proprie difficoltà.Il rischio è proprio quello di non denudare al sole ciò che siamo, di non confrontarci, di non scambiare le pelli. E nemmeno di rischiare mai di “perdere”, per certi versi… che poi è l’unico modo per “vincere”.

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