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Il costo della democrazia

Creato il 11 maggio 2012 da Lundici @lundici_it

Quando la necessità del denaro trasforma i partiti in una compagnia da avanspettacolo. Non è qui che si discetterà, con l’ausilio di minuziose ricostruzioni storiche, del finanziamento ai partiti in Italia.La letteratura è vasta e la distribuzione editoriale è zeppa di giornalisti, analisti e politologi che hanno erudito il cittadino riguardo alla voracità con la quale i partiti si sono auto-muniti dei soldi dello Stato. Sfruttando, per di più, leggi costruite ad hoc, furberie di quarta mano, raggiri degni della banda del buco.

È solo importante ricordare che di finanziamento pubblico ai partiti si dibatte dal 1974, anno in cui, con la legge Piccoli, lo si introdusse a passo di norma. C’erano stati degli scandali tangentizi ad invocarlo, ma già allora si spacciò come un ineliminabile balzello a tributo di una divinità sacra: la democrazia. La questione vive in una realtà immutata da decenni e, per di più, è in ballo l’ultimo salasso da 180 milioni di Euro destinato ai partiti il prossimo luglio 2012.

Il costo della democrazia

Luigi Lusi

Se si raffronta il nostro finanziamento con quello degli altri Paesi europei, il paragone resta impietoso per le forze di maggioranza, opposizione, le escluse dal Parlamento (è sufficiente l’1% dei voti per aver diritto ai soldi) e, addirittura, le estinte come la Margherita del famigerato tesoriere Lusi. Ciò nonostante, persino in altri Paesi, la questione è, o si è fatta, spinosa. È il caso, tra gli altri, della più grande democrazia del pianeta, o almeno definita tale: gli Stati Uniti.

A scompaginare il quadro ci ha pensato la Corte Suprema, il massimo organo giudiziario americano, che nel 2010, a seguito di una sentenza, ha stabilito il diritto delle imprese, dei sindacati e delle singole persone di poter donare denaro illimitato, tramite degli organi appositi (i Super Pac), ad un candidato per cui si intende parteggiare. Da questa decisione, che ha eliminato il tetto di donazione pari a 2500 dollari, il passo per un colossale conflitto d’interesse è stato molto breve. Ad ora, in America, i Super Pac, comitati d’azione politica che sostengono i singoli candidati, possono ricevere quanti più soldi riescano a raggranellare senza alcun obbligo di trasparenza. I candidati che, più di tutti, sono favoriti da questa nuova possibilità sono coloro che sanno intessere una rete di relazioni con i grandi capitali USA.

Giocoforza, durante le primarie in corso nel “Grand Old Party” (il Partito Repubblicano), il candidato meglio inserito nel mondo della finanza ha avuto di più. Mitt Romney, il contendente che ha virtualmente vinto le primarie e che sfiderà Obama per la carica di Presidente degli Stati Uniti, ha ottenuto attraverso il suo Super Pac Restore our future una cifra, che solo a maggio, si aggira intorno ai cinquanta milioni di dollari. E non è un caso che Romney lavorasse nell’area economico-finanziaria e avesse fondato, prima di intraprendere la carriera politica, Bain Capital, una società d’investimento finanziario dal valore miliardario, una di quelle, tanto per specificare, contro cui si batte il movimento sorto a Zuccotti Park, NY. Anche Obama, che ha vinto nel 2008 grazie ai piccoli donatori felici di finanziarlo personalmente, ha dalla sua un Super Pac Priorities Usa Action che catalizza i finanziamenti illimitati. “Male necessario”, pare l’abbia definito il presidente afroamericano.

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Mitt Romney

Super Pac che, con le dovute proporzioni, possono essere paragonati alle fondazioni che i politici italiani hanno creato con zelante prontezza, facendole nascere e proliferare in poco tempo. Alcuni nomi di esse ne racchiudono il senso: tanto per citarne solo tre (l’elenco completo è per stomaci forti), ci sono la Cristoforo Colombo di “Sciaboletta” Scajola, Italianieuropei del ticket Amato-D’Alema e Italiadecide fondata da Luciano Violante (presidente) che vede, tra i suoi membri, giganti del calibro di Roberto Calderoli.

Tutti i maggiorenti della politica italiana hanno una fondazione. Tale moda, da un lato, scimmiotta i “think tanks” americani e, dall’altro, accetta denaro da persone la cui identità i comuni mortali mai conosceranno, non avendo, le fondazioni, l’obbligo legislativo di presentare alcun bilancio certificato (è da questa mancanza d’obbligo che, probabilmente, dipende la portata dello scandalo delle due fondazioni lombarde, di ambito sanitario, San Raffaele del Monte Tabor e Maugeri). Senza dimenticare che, durante le ultime settimane calde in cui gli ABC (Alfano, Bersani e Casini) hanno promesso di regolare i finanziamenti, una proposta di legge, a firma Ugo Sposetti (tesoriere dei defunti DS), ancora viaggiava viva e vegeta in Commissione Affari Costituzionali: un finanziamento pubblico alle fondazioni medesime nella misura complessiva massima di 185 milioni di euro per ciascun esercizio di bilancio. Vale a dire: 185 milioni all’anno per cinque anni.

Quello che stupisce di più, in ambito italiano, è il modo in cui i partiti non riescano a capire che, sul loro finanziamento, si giocano tutto, o quasi. Un’abolizione, sancita da un referendum del 1993, sarebbe auspicabile e doverosa. Pur non risolvendo il problema del deficit e del debito pubblico, è in virtù di questo che i partiti dovrebbero agire, proprio perché, essendo ininfluente ai fini macroeconomici, essi decidano di dare un esempio comportamentale, se non etico. Dopo qualche mese dagli scandali Lusi, Belsito e Naro, i parlamentari non sono ancora in grado di dire se restituiranno o meno l’ultimo troncone di finanziamento che dovranno ricevere a luglio.

Ma per i partiti il costo della democrazia è cedere i soldi pubblici ai partiti stessi che, è bene sottolinearlo, sono società private e non fanno parte alcuna delle Istituzioni. È vero invece, secondo Carta Costituzionale, che dovrebbero dare l’orientamento di politica nazionale, sebbene sia pulsante la sensazione che le Istituzioni vengano solo occupate e sminuite dai suddetti. Un conto, quindi, è il costo delle Istituzioni (i luoghi della democrazia), un conto è il costo dei partiti, fondati da privati cittadini.

Un altro costo della democrazia sarebbe quello di prendere in esame le leggi popolari. L’articolo 71 della Costituzione non pone vincoli di discussione, senza dubbio, ma dichiara a chiare lettere che: “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”. Così questo tipo di leggi vengono presentate dai cittadini al Parlamento e, nella stragrande maggioranza dei casi, giacciono dormienti nei cassetti dorati delle Camere.

Il costo della democrazia
Questo è stato il destino della legge d’iniziativa popolare presentata da Beppe Grillo nel 2007 e che toccava qualcosa come il libero esercizio della democrazia e i partiti. Tale proposta di legge poneva il limite di due candidature per ogni cittadino, il ritorno alla preferenza diretta ai candidati e l’ineleggibilità per i condannati in via definitiva. Una legge che si sviluppa in cinque semplici articoli, di cui i primi tre sono i più importanti, passata al vaglio della Consulta, come da prassi, e che fu consegnata al Senato. Discussa? Mai. Presa in esame? Neanche per sogno. Arduo, anche, rifugiarsi come fanno molti politici nell’accusa di qualunquismo al comico, dal momento che questa legge non ha alcunché di inattuabile e sovversivo, chiede solo una maggiore correttezza e trasparenza. Sarebbe stato un costo così gravoso per la democrazia se, prima Franco Marini nel 2007-08, o Renato Schifani dal 2008 fino ad oggi, avessero, non approvato, ma almeno invitato i loro colleghi alla discussione in Senato? Alla luce del fatto che, poi, se una legge di iniziativa popolare non viene discussa entro due legislature, essa decade come proposta. Destino che senza alcun dubbio avrà questa legge che ebbe 350mila firmatari.

Nulla, i politici, tutti, hanno soprasseduto alla volontà di una minoritaria ma decisiva fetta di cittadini che si sono spesi per far firmare e firmare il progetto affinché fosse dibattuto. Considerando anche la cocente evidenza che, negli ultimi cinque anni, in Senato, si è discusso di pochissimi degni disegni di legge, di norme a volte ridicole e, soprattutto, tenendo presente che i senatori “lavorano”, dati alla mano, un paio o al massimo tre giorni alla settimana in Aula, senza fare neanche giornata piena. “Ma ci sono le Commissioni, il lavoro sul territorio”, diranno. Certo, ci sono, ma c’è anche la democrazia e le sue leggi presentate dai cittadini e che vengono cestinate a priori, con la stessa mancanza di rispetto, sbattuta sui denti al popolo, che si perpetua nelle tornate referendarie (finanziamento, nucleare, acqua ecc.).

Colpisce ancora di più che, nell’infinita e stucchevole melina che i partiti stanno attuando per auto-riformarsi, con propositi, annunci, moniti, e trombonate, qualche settimana fa la cervellotica proposta di legge partorita ha trovato tre altolà: quello del Presidente della Cassazione Ernesto Lupo, quello dei voti contrari della Lega in commissione Affari Costituzionali e quello dell’ufficio studi della Camera che ha bloccato l’iter in commissione perché ha sostenuto che prima si deve stabilire la natura giuridica dei partiti, cambiando l’art. 49 della Costituzione (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale), e solo in seguito si potrà parlare degli agognati controlli – nella proposta di ABC si prevedeva di certificare i bilanci obbligatoriamente e di farseli esaminare dalla Cassazione e dalla Corte dei Conti.

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Pellegrino Capaldo

I partiti, in netta o calcolata difficoltà, hanno tirato fuori dal cilindro, per iniziativa di Casini, la proposta di legge popolare del banchiere Pellegrino Capaldo, di simpatie “cossighiane”, che vorrebbe la possibilità di erogazioni volontarie da parte dei cittadini, fino ad un massimo di duemila Euro, ciascuna con un credito d’imposta riconosciuto dallo Stato del 95%. Vale a dire: su duemila Euro il cittadino spende cento Euro, il resto lo mette lo Stato, ergo il cittadino stesso. Prima considerazione: sarebbe curioso vedere chi sarebbero i cinquantamila firmatari della proposta di legge popolare di Capaldo. Seconda: a Casini, primo sostenitore della bozza Capaldo, fa piacere tirare in ballo il vessillo della legge popolare solo quando conviene alla sua industria (i partiti). Terza: per quale ragione i cittadini dovrebbero donare i loro soldi a questi partiti, dopo che il quattro per mille voluto da Prodi nel 1997 fu un fallimento completo? Quarta: perché rinunciare ad una legge d’iniziativa popolare (Grillo 2007), già firmata dai cittadini e confermata dalla Consulta, e invece appoggiare una proposta, solo una proposta, di legge di iniziativa popolare che, difficilmente, troverà dei firmatari e che modifica in modo risibile il meccanismo dei soldi pubblici ai partiti?

La verità, in questa storia infinita dei rimpalli, l’hanno disperatamente detta due tesorieri di partito, Antonio Misiani del PD e Ugo Sposetti dei DS. Il primo ha ammesso che il PD è in rosso di 43 milioni di Euro e ha un bisogno impellente dell’ultima tranche dei pagamenti di Stato stabiliti dall’attuale legge dei contributi elettorali. Il secondo dichiara candidamente che gli ex DS, partito ancora in vita seppure annesso al PD, ha dei debiti per l’ammontare di circa cento milioni di Euro, garantito però da un robusto patrimonio (si suppone beni mobiliari e immobiliari ). Come fa il PD ad essere in rosso se ha dichiarato di aver speso meno soldi in campagna elettorale di quanti ne abbia ricevuti? Facile: il primo motivo è che quei soldi non sono contributi elettorali (o rimborsi) come recita la legge in vigore ma puro finanziamento; poi, in seconda battuta, a differenza delle imprese, strozzate dal “credit crunch”, i partiti prendono i soldi direttamente dalle banche che li anticipano allo Stato.

Il costo della democrazia
Tra una promessa e l’altra, alcuni propongono di dimezzare il finanziamento, altri di ridurlo del 30% eccetera, sebbene, delle trentanove proposte di legge presentate sul finanziamento, nessuna ne preconizzi l’abolizione. A fronte delle voci che ogni giorno si rincorrono, l’unica forza politica che ha rinunciato al finanziamento, senza bisogno di attendere la legge, è il Movimento a Cinque Stelle che ha lasciato allo Stato i quasi due milioni di Euro spettanti per le elezioni regionali del 2010. Forse è per questa ragione che tale movimento, a prescindere da come la si pensi, è tanto odiato dall’establishment: sta dimostrando che si possono fare campagne elettorali senza soldi ma solo con i contributi degli attivisti e dei cittadini che, quando credono in un progetto politico, non hanno timore di offrire qualche Euro. Dopo lo smottamento partitico provocato dalle ultime amministrative, in commissione Affari Costituzionali si è votata la decurtazione del 50% dell’ultima tranche estiva di rimborso elettorale ed un’ulteriore agevolazione dell’autofinanziamento, con sgravi fiscali del 38%, per le elargizioni comprese tra i 50 e i 10mila Euro (che si aggiunge allo sgravio del 19% per le quote maggiori). Di abolizione completa della tranche, di abolizione del finanziamento in toto, di eliminare l’inquietante soglia dei 50mila Euro sotto la quale i partiti non sono tenuti a certificare il donatore, manco a parlarne. Così si rimane aggrappati al tuono definitivo di Bersani: “Vedrete che a maggio ci saranno sia la legge sui controlli dei bilanci sia quello sullo statuto dei partiti”. Qualcosa, però, la vogliamo!


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