Chi si metterà a leggere il mio decalogo amoroso penserà: che presunzione. Avete ragione, la mia è solo un’elegante – talvolta non molto- rappresentazione approssimativa e, questo sì, divertente del mondo. Del resto, sfido chiunque a non essere selettivo e un po’ massimale nell’arte del raccontare.
Uno dei blog letterari maggiormente letti e apprezzati dagli americani è quello di Mark Sarvas, The elegant variation, o così pare. Sto leggendo il suo “Harry, rivisto”, edito Adelphi, 19 euro titolo originale “Harry, revised”*. Niente fin’ora – ma mi riservo di cambiare idea, sono al 3° capitolo – mi pare degno di nota se non una bella citazione: “Ma quando alza gli occhi dal piatto, ecco Molly. Sorridente, aspettante. Splendente, Harry giura che risplende. Le sorride di rimando, non può farne a meno, e allora, epifania. Istantanea e inattesa, nella migliore tradizione epifanica.” e un primo capitolo in cui un sandwich dolce e fritto, il Montecristo, diventa occasione per relazionare Harry, personaggio principale, a Dantès, personaggio principale del Conte di Montecristo. Carino e fatto senza spocchia, direi naturale, possibile: quotidiano.
La mia curiosità si spinge a investigare nel web per conoscere meglio Mark Sarvas. Prima mossa: gugolare, per vedere come si muove in inglese. Fantastico. Molto colto, bello stile, vale il gioco e la candela. Quasi, non riesco più a leggerlo in italiano, ma devo: troppo pigra e curiosa per leggermelo in inglese. Non mi interessa vedere che faccia abbia: quasi mai mi incuriosisce l’aspetto delle penne.
Degna di nota, nel suo blog, è la critica a un decalogo di Elmore, molto apprezzato negli Usa, che ci dice quali regole seguire nello scrivere un racconto di finzione (fiction).
La lista ve la traduco:
1: non cominciare mai un libro parlando del tempo.
2: evita prologhi
3: non usare altro verbo se non “disse” per condurre un dialogo
4: non usare un avverbio per modificare il verbo “disse”… egli ammonì pesantemente
5: tieni i punti esclamativi sotto controllo. Ti è concesso di usarne solo 2 o 3 ogni 100.000 parole di prosa
6: non usare parole come “improvvisamente” o qualcosa che non sono riuscita a tradurre, devo chiedere a qualcuno dei miei profs.
7:usa dialetti regionali, patois con moderazione
8: evita descrizioni dettagliate dei personaggi
9 non descrivere superdettagliatamente cose e luoghi
10: prova e evitare di tenere quel che il lettore salterebbe.
Mark Sarvas sostiene che dovrebbe essercene un 11 esima: se trovi liste del genere non considerarle, perchè ogni regola è valida anche se la si contraddice. L’unica regola valida è la 5°. Concordo anche io abbastanza
Penso a un modo brillante per poter negare questo decalogo; motivarlo dal punto di vista “letterario”? L’ha già fatto Sarvas, non c’è necessità di replicare…in buona sostanza lui ci dice che un mondo con queste regole è un mondo in cui Balzac, Flaubert – non mi ricordo se dice anche Flaubert ma lo aggiungo io- Anna Karenina non siano esistiti. Un mondo in cui non sia esistito Proust, Joyce, Landolfi. Su Landolfi potrei anche io tirare la mia lineetta. Un mondo in cui sia esistito solo Elmore e la sua classe di alunni 10 e lode.
Inutile proseguire. Non so voi, ma io, nel leggere la prima regola, ho pensato alle conversazioni in ascensore, o a quelle togli-imbarazzo “bella giornata eh”, giusto perché non ci si sa godere un po’ di silenzio in santa pace. Il silenzio.
Evidentemente Elmore, senza saperlo finché non sono arrivata io – mi prenderò cura di dirglielo, o almeno di dirlo a Sarvas – si è inventato un genere: il romanzo d’ascensore.
Successo di critica e pubblico diverrebbe se la ponessimo in questi termini – Elmore è già un successone di pubblico; io, autoreferenziale, sono la critica.
La regola di fondo è: sei in ascensore, hai poco tempo, non essere banale. Non dirmi come sta tua madre, perché non mi interessa. Non modificare i fatti con gli avverbi: superflui, i fatti sono fatti. La vita è breve. Non pretenderai mica che la passi a sfogliare il dizionario in cerca delle parole difficili?
Esaminiamo bene la lista: punto per punto.
1. non esordire parlando di tempo: nemmeno la spieghiamo questa
2.evita i prologhi: non ce ne sarebbe il tempo, di piano in piano, non ti posso spiegare i personaggi
3.non usare altro verbo diverso da “disse”: aggiungo: sarei quasi quasi per un dialogo diretto
4.non usare avverbi. Si sì, chi ne ha il tempo. Come mettere un avverbio in mente nello spazio dell’endecasillabo. Si può fare ma se nello spazio di 5 – 6 piani (ovvio che poi in Usa ci sono i grattacieli) ci mettiamo un avverbio, deve essere un avverbio molto importante…
5.punti esclamativi. Giusto, condivido, anche nei romanzi a peso è valida la cosa.
6.anche qui, non usare connettivi logici. La logica la facciamo nella nostra testa.
7.dialetti regionali: beh questa è a vostra discrezione. Alla fine dipende dal contesto. A me i mix piacciono. Poi in ascensore ci stanno bene le espressioni colorite, anzi: arricchiscono.
8.9non descrivere super dettagliatamente. Nemmeno a dirlo, nel tempo che m spiegate il carattere di vostra sorella Giada sono già bella che arrivata a casa.
10.evita quel che il lettore salterebbe. Il concetto è sempre quello: non perderti via.
Un romanzo del genere durerebbe che so, 10 righe? No no, dipende dalla velocità del lettore. Poi mica è detto che si debba esaurire con un singolo viaggio. Ecco metti che i capitoli li facciamo di 5 righe ciascuno, così c’è unità narrativa. Una roba così:
Cecità d’intenti
1.
Inutile cari lettori parlarvi del tempo: siete in ascensore, verosimilmente il tempo adesso potrebbe fermarsi, voi rimanere incastrati e non vedere mai più che cosa c’è fuori.(ehehe, questo è un prologo) Ecco perché non varrebbe nemmeno la pena spiegare come Jacqueline, quella volta, in auto, si è schiantata contro un palo della luce.
2.
A dire la verità non era lei che guidava, ma sua sorella minorenne, che però era sempre stata precoce in tutto, nei limiti della legalità: primo bacio a 11 anni, prima uscita in discoteca a 13, prima volta nella stessa discoteca, primo concorso vinto a 8, prima delusione a 5, prima sigaretta a 7, prima canna a 12. E che, aspettare i 18 per portare un’auto?
3.
“Portami, portami, voglio imparare”
“Imparerai quando avrai l’età”
“Non avrò tempo, quando avrò l’età. Dovrò fare altre cose: studiare, fare uno stage,entrare in politica. Dovrò fare la pratica da giornalista, perché quella d’avvocato la dovrò fare a 24. Dovrò fallire un po’ di strade per poter trovare quella giusta a 25 anni. Siamo i più lenti in Europa a laurearci.”
“Vada”
4.
Non voleva certo imparare a guidare, Sara. Mica aveva bisogno che la sorella le insegnasse una cosa che lei aveva già imparato stando con un tipo più grande. Sara lo sapeva come si faceva, a guidare. Voleva solo suicidarsi. Perché coinvolgere la sorella? Perché l’aveva sempre odiata e così non avrebbero pensato che lei si fosse suicidata. Avrebbero pensato: che cazzo gira in testa a Jacqueline? In verità, Jacqueline aveva sentore di rancore covato sotto le ceneri: era una bronza coerta, anche lei, non una dilettante. Aveva fatto tutto quello che aveva fatto la sorella minore, tenendo un low profile, o un atteggiamento da DC, da Prima Repubblica.
5.
Jacqueline si mette nel posto passeggero, cede la guida a Sara. Sa che lei sa guidare, le chiede:
“Perché vuoi farlo?”
“Perché voglio imparare”
“Lo sai già fare”
“No, guarda.” Sara ingrana la prima (non ho detto all’improvviso), preme sull’acceleratore a manetta, arriva in 2°, va su su su di giri, sterza e controsterza. Jacqueline si rompe le balle, va di freno a mano. Mezzo testacoda con atterraggio su palo della luce.
6.
Nessuna delle due muore.
“Hai visto?” “Lo sapevi fare, avevo ragione”
“cazzo. Volevo solo metterti nella merda. Non vedrai la macchina per un po’”
“e tu, non vedrai proprio più nulla. Non so se ti sei accorta che sei bendata. Sei cieca”.
Sei capitoli, che bella storia. Un romanzo d’ascensore e di formazione. Quanti piani? 2-3?
Voglio 10, – vabbè, senza lode per la storia del prologo.
* il post l’ho pubblicato l’anno scorso sul vecchio blog, ora il libro l’ho finito e sicuramente è una lettura che consiglio: ben strutturato, è a suo modo il romanzo di formazione di un uomo di anta passa anni. In qualche punto, verso la fine, l’happy ending è troppo mieloso; per cui direi meglio la prima parte, in cui Harry è un abulico uomo dei nostri tempi. Sì, ho gusti convenzionali. E comunque di buono ha che è meno lungo del Conte di Montecristo – e così perdo i fan di Dumas, ammettendo che non l’ho mai finito.