Magazine Per Lei
Sto parlando di una specie molto ma molto pericolosa per noi donne: i degenti.
Il dizionario italiano definisce degente chi “per malattia o altro incidente è costretto a rimanere a letto o è ricoverato in un luogo di cura”.
Io invece la vedo così: il degente è quel bipede che alla prima occasione ti arroventa le orecchie e ti stira il cervello con i dettagli sulla sua ultima dolorosissima storia d’amore.
Facciamo però le dovute distinzioni: c’è chi soffre sul serio e chi soffre a comando.
Il primo è un degente autentico. Sta male davvero e se esce con voi è solo perché ormai anche il suo criceto si infila i tappi nelle orecchie appena lo vede arrivare.
Se pensate che la “sindrome della crocerossina” colpisca solo le altre donne, allora usciteci pure. Ma risparmiatevi il parrucchiere, l’estetista e il perizoma di strass. Soldi buttati. Non dimenticate però un plaid e dei viveri. I discorsi di un uomo che soffre per amore sono più lunghi e noiosi del Decalogo di Kieslowski. E comunque piuttosto che un degente, vi consiglio di adottare un monumento. Più utile e soddisfacente.
Se poi nutrite la segreta speranza di avviare una relazione con un tipo così malmesso, io vi suggerisco caldamente un mese di volontariato a Calcutta.
Parlo per esperienza diretta.
Molti anni fa mi invaghii di in un degente quasi pronto per l’obitorio.
Era estate e lui faceva il cameriere in un piano bar. Ogni sera aspettavo pazientemente che finisse il turno per sedermi a tavolino con lui e spararmi in vena tutti i particolari della tragica storia d’amore con Viviana, la sua ex.
Anche un cardellino avrebbe capito che il tizio aveva un elettroencefalogramma quasi piatto. Invece io contavo di ridurre Viviana ad un lontano ricordo in un paio di sedute.
Ma a Ferragosto stavamo ancora a “quella volta in cui io la portai a Venezia per il suo compleanno, e la stronza si mise a flirtare con il gondoliere.”
Quando l’estate volgeva al termine, la degente ero io. In posizione obliqua sulla sedia, ero collegata ad un boccettone di Negroni tramite cannuccia chilometrica, mi limitavo ad annuire di tanto in tanto e contemporaneamente tiravo su un po’ di liquido. Una sera decisi di saltare la seduta. Non ce la facevo più. La sera successiva lo trovai in stato larvale.
“Hei, che hai?”
“Ieri non sei venuta…io ti aspettavo…sono stato male senza di te.”
Ueilà, si muove qualcosa. Finalmente!
“Mi dispiace…è che non stavo bene, ma adesso è tutto ok. Però… sono felice che tu abbia sentito la mia mancanza…”
“Già. Bene. Dove eravamo rimasti?”
“Ah…uhm…a quella volta che tu chiedesti a Viviana chi avrebbe gettato giù dalla torre se te o il suo pechinese e lei rispose che ci doveva pensare.”
“Ah sì! Ma ti rendi conto?! - Ci devo pensare - Come se io e quel ratto peloso fossimo sullo stesso piano! E non ti ho ancora raccontato di quella volta che…”
“Scusa un attimo, ti dispiace se prima ordino il solito?”
…tanto è l’ultimo. Sono sicura che la sta dimenticando. Sento che si sta affezionando a me.
“Ma figurati, faccio io. Anselmo! Anselmoooo!! Porta un Negroni per…per…scusa, com’è che ti chiami?”
La seconda categoria, quella dei malati immaginari, è molto più pericolosa e infida.
Ci sono uomini che scoppiano di salute e testosterone. Ma appena gli chiedi qualcosa di più concreto li vedi impallidire, balbettare, tremare, e se necessario anche piangere.
“Oddio…cos’hai? Non ti senti bene? Santo cielo, ti ho chiesto di accompagnarmi al matrimonio di mia cugina, mica a Mauthausen!”
“No…è che… sai…ti ho mai parlato di Lara?”
“No.”
“Il fatto è che Lara è ancora una ferita aperta.”
Tra un po’ te la apro io una ferita in fronte.
“Lei…lei…oddio….”
Singhiozzo convulso.
“Parlarne è troppo doloroso per me… non so se ce la faccio.”
“Ce la fai, ce la fai…”
“No…io non ce la..”
“CE LA FAI.”
“La…Lara era la mia ex. Ci dovevamo sposare, ma un giorno lei se ne è andata senza una spiegazione. E io da allora soffro. Soffro maledettamente.”
“Non mi pareva che stanotte soffrissi tanto. E comunque pazienza, verrai sofferente.”
“Io… non ce la faccio, soprattutto ai matrimoni non ce la faccio. Ti rovinerei la festa.”
“Sarà rovinata se finirò seduta al tavolo Mughetto.”
“Cosa?”
“Il tavolo delle cugine single. Tu verrai con me e siederemo al tavolo Orchidea, quello delle cugine accoppiate.”
“Ough! Couf Couf…No…ti prego, sto troppo male. Il ricordo di Sara mi affligge.”
“Non si chiamava Lara?”
“Ah sì! Certo, Lara. Lara, sì.”
“Senti, per me puoi anche venire con una flebo infilata nel braccio. Ma siederai con me al tavolo Orchidea.”
“Tu non capisci, io ho rasentato il suicidio per Mara!”
“Lara.”
“Ah…sì. Lara, Lara.”
“Forse non hai capito, io a quel matrimonio ci devo andare accompagnata, anche da un cadavere se necessario.”
“Mi dispiace ma non credo che reggerei…”
“Stammi a sentire, lurido pezzo di letame avariato: a Lara, Sara e Mara aggiungici anche una BARA.”
“Ba..Bara?”
“Sì, BARA. È il nome del monolocale in cui passerai il tuo futuro se non verrai con me a quel cazzo di matrimonio e non incollerai il tuo culo a quella fottuta sedia di quel fottuto tavolo Orchidea. Chiaro?”
Il degente sarà pure pericoloso, ma con una donna che rischia il tavolo Mughetto, non c’è partita.
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