

di Maria Serra

È solo in questa prospettiva di ampio respiro che – prendendo in considerazione uno Stato che resta sempre piuttosto riparato dai “clamori” che negli ultimi anni hanno caratterizzato l’Estremo Oriente – si può comprendere a pieno il “cipiglio nazionalista” con cui il neo-Primo Ministro giapponese Shinzo Abe si è presentato di fronte al proprio popolo e alla comunità internazionale lo scorso dicembre: “ricostruiremo l’economia, ricostruiremo il Giappone”, una frase non troppo diversa da quella pronunciata dall’ex Premier Ryutaro Hashimoto all’indomani del G7 di Tokyo del 1998 nel pieno della crisi economica asiatica della fine del Secolo, o da quella di Naoto Kan pochi giorni dopo lo tsunami del 2011 che tagliò le ali ai piani di rilancio del Giappone (anche in senso militare – era di fresca approvazione il nuovo Programma di Difesa Nazionale) nell’Asia-Pacifico. Le parole di Abe oggi risultano differenti solo nella misura in cui si ha percezione da un lato proprio del disastro di Fukushima, che ha aperto il dibattito sulle fonti di approvvigionamento energetico e che ha allargato esponenzialmente la crisi economica (la bilancia commerciale segna un deficit di circa 50 miliardi di euro nel solo 2012 e il debito pubblico è al +235% rispetto al PIL), e, dall’altro, della progressiva influenza economica (ma anche politica e militare) della Cina (in favore della quale Tokyo ha lasciato nel 2010 il secondo posto di economia mondiale) nella regione sud-orientale del Continente, del riaccendersi delle tensioni tra le due Coree e del rilancio delle strategie russe nei propri territori più orientali. Tutte considerazioni che hanno evidenziato la necessità di partecipare alla rinnovata partita geopolitica dell’Estremo Oriente. Tutto ciò possibilmente perseguendo una politica più assertiva rispetto agli USA, come già dimostrato – nonostante i motivi di attrito, ad iniziare dalla contesa sulle isole Senkaku/Diaoyu – dalla crescita dei rapporti economici tra Tokyo e Pechino (quest’ultima è diventata il primo partner commerciale per il Paese del Sol Levante, sorpassando gli USA) o, ancora, dalla visita (non precedentemente concordata né con Washington né con Seoul) dello scorso 15 maggio del consigliere di Abe, Isao Iijima, a Pyongyang per tentare di condurre Kim Jong-un sul tavolo delle trattative. Una faccenda che si complica ulteriormente se si considera che proprio con la Corea del Sud – funzionale per la deterrenza nei confronti del vicino nordcoreano – Tokyo ha in corso anche il contenzioso sulle isole Dokdo/Takeshima.

Potenziare la cooperazione bilaterale servirà forse a sciogliere il nodo geopolitico (e viceversa), con un certo benestare da parte degli Stati Uniti che potrebbero vedere in questo “cedimento” di Mosca un’iniziale ridimensionamento di quella che, a conti fatti, costituisce una linea avanzata di difesa e un elemento fondamentale per il controllo aereo e marittimo del Mare di Okhotsk e per la proiezione della Russia nel Pacifico.
Quella del Giappone, dunque, è una partita su più fronti in uno scenario in cui le scelte di ogni singolo attore coinvolto (non si dimentichi anche Taiwan – peraltro non riconosciuta da Tokyo – che nello scorso settembre è attivamente intervenuta nella difesa della sovranità cinese sulle Senkaku/Diayou e quindi delle Zone Economiche Esclusive circostanti o, ancora, Stati come Singapore, Myanmar e Brunei che, benché “minori”, rappresentano la nuova frontiera economica asiatica) determina quelle degli altri e dove certamente l’espansionismo (nell’accezione più larga del termine) cinese e la minaccia nordcoreana fanno sì che il costituirsi di una più solida “alleanza” russo-nipponica rappresenti un’opzione più digeribile per gli USA. La continua ricerca di un compromesso da parte di Abe non si presenta perciò affatto facile e il suo Paese potrà uscire dal piano strettamente regionale nel momento in cui avrà rafforzato il proprio network – anzitutto economico per i motivi di cui sopra – anche ad attori terzi al contesto in questione. L’avvio di negoziati con l’Unione Europea per la creazione di un’area di libero scambio si inscrive proprio in questo tracciato. Fino ad allora il Paese del Sol Levante rischia di restare schiacciato tra i diversi player “di livello” che si contendono l’Estremo Oriente, il Pacifico e – nello scenario internazionale uni-multipolare – finanche il mondo?
*Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
[1] Formalmente questa ha inizio alla metà del XIX Secolo con l’abbandono da parte della Cina delle rivendicazioni sulle isole in questione e con la definizione di alcuni Trattati tra Russia e Giappone che sostanzialmente riconoscevano la sovranità nipponica su tutto l’arcipelago. La diatriba si riaprì durante le ultime battute del secondo conflitto mondiale quando l’URSS invase il Manchukuo e tutto l’arcipelago in questione e dopo gli accordi di San Francisco del 1951-52 in cui il Giappone rinunciava a Taiwan, isole Pescadores e Curili (eccezion fatta per quelle su menzionate). Negli anni successivi Mosca oscillò tra una linea di chiusura e politiche più distensive, particolarmente praticate all’indomani della caduta del Muro di Berlino al fine di riguadagnare posizioni sullo scacchiere internazionale.
[2] Nel corso dell’ultimo biennio più volte è stata considerata la possibilità di un dispiegamento di uno dei più efficaci sistemi anti-aerei russi (l’S-400 Triumf) nel territorio della Kamchatka, così come i sistemi missilistici anti-nave Yakhont (di cui in questi giorni si parla in relazione alla crisi siriana e al sostegno militare che Mosca sta offrendo al regime di Damasco) per la difesa costiera, i missili terra-aria Tor 2 ed elicotteri d’attacco. E mentre in Siberia e nel Pacifico più volte Mosca ha proceduto con esercitazioni e simulazioni di attacchi cinesi, a Vladivostok continua la costruzione delle infrastrutture che ospiteranno entro il 2014 la Flotta russa del Pacifico (comprensiva di due Mistral di fabbricazione francese).
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