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(Tratto da “le Potenze dell’Anima”, di Elemire Zolla)
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È ingenuo almanaccare se quanto accade a un uomo sia meritato, saggezza insegna che ciascuno è la sintesi del suo carattere e delle circostanze: è un destino. Pietà significa, latinamente, essere docili come Enea ai segni del fato… Se il seme e il nutrimento sono la causa materiale d’una vita umana, se la causa efficiente è il concepimento e la causa formale l’idea di un corpo animato, la causa finale non potrà che essere il destino di quella vita, a meno che non si rinunci del tutto a parlare di fini, invocando soltanto combinazioni e probabilità.
Ma in questo caso l’esistenza appare un azzardo dove nulla ha senso in quanto privo di una causa finale, dove soltanto l’inibizione dell’intelletto impedisce di disperarsi, e dove comunque incombe una paurosa insicurezza, che accende la bramosia e l’ansia oppure l’utopia luciferina, l’illusione di poter costruire e «scegliersi» il proprio destino.
La prima soluzione solleci- terà a impiegare, parlando della vita, la metafora dell’albero o del fiume o della strada; la seconda soluzione indurrà a utilizzare le metafore della colata di lava o del vortice marino travolgenti o della macchina da costruire e far funzionare. La sorte è l’alveo nel quale fluisce il tempo d’un uomo: difficile vederne chiaramente il profilo; tuttavia, garantisce san Paolo, «sappiamo che ogni cosa contribuisce al bene di coloro che amino Dio, di coloro che son chiamati secondo il Suo decreto… perché coloro che conobbe predestinò e costoro altresì chiamò e giustificò, e quanti giustificò, glorificò»
La vita di chi abbia avuto un’esperienza capitale, per la quale «valeva la pena» di vivere, è comunque sempre una chiara e sicura sorte, perché tutti i casi che gli siano occorsi si dispongono in ordine a quell’evento come la limatura di ferro si orienta a formare una rosa attorno alla calamita. La vita di un santo, come quella di Agostino, è tutta impregnata di destino perché ogni suo episodio è una tappa verso la conversione e la sua intera esistenza disegna un percorso con ambagi e arresti o cammini spediti, verso il fatidico fine; la conversione è infatti il prototipo dell’evento elargitore di destino, ma anche vicende meno eccelse possono dare un senso, cioè sorte a una vita. Un mero e orrido accumulo di fatti è una vita alla ventura, tutta fortuita; e benché il fato si sveli soltanto quand’è compiuto (il momento di morire è l’ultimo in cui sia concesso di ravvisarne la forma) e si resti incerti fino all’ultimo sul suo profilo, conviene riporvi calda fede e ferma speranza, come prescrivevano certi motti: «Ho il mio astro», «Non si volge chi a stella è fisso».
Le metafore che designano il fato sono tratte spesso dalla filatura, dall’orditura dei tappeti; lavori del genere seguono appunto una trama che, a osservare le singole manovre del filatore, può restare occulta, ma si rende comprensibile alla fine o dall’alto, tanto che è premiato chi abbia subito posto fede nel filatore restando in pace e quieto durante l’attesa. Talvolta alcuni credono di toccare con mano la sorte quando osservano premonizioni o sono colpiti da coincidenze che il gioco delle probabilità non prevede.
Le rettoriche del destino :
Se al senso del destino sono legati abbandono e felicità come fiori alla radice, la sua assenza, l’idea della cieca ventura, è la morte vivente.
Si sente una differenza tra gli accadimenti predestinati e i casi della fortuna, questi infatti disorientano e, infon- dendo una penosa sensazione di vuoto, inducono a vede- re nel mondo solo confusione, inutilità; viceversa l’esul- tanza si lega ai momenti nei quali ci si sente simili al ragno che comincia a vedersi nel cuore della sua tela e non più librato a un filo. Di qui il fascino dell’uomo raggiante, che ha la certezza del proprio destino.
Gli Ewe del Togo affermavano che l’uomo avesse, oltre all’anima, uno spirito che ne improntava il carattere e il destino. Era stata la Madre celeste a inviarlo per incarnarsi con certi compiti e con una particolare benedizione: si chiamava «quello che ritorna là donde è venuto» (dzogbo), e si diceva avesse il dovere di ripetere ciò che già aveva fatto in cielo: lo stesso lavoro, gli stessi figli, penando se non avesse ritrovato la sua donna, esposto a mille traversie che lo avrebbero comunque sbattuto nuovamente tra le braccia di colei che, fra le altre sue mogli, si sarebbe chiamata la «donna dell’aldilà» (idzogbemesi). Guai a non pagare i debiti contratti lassù, a non eseguire i mandati ricevuti, a tradire il destino.
Nel Ghana si narra che la Madre celeste emani il «messaggio del destino» per l’anima pronta a incarnarsi, e le faccia cadere in bocca una stilla dell’acqua di vita, che bol- le ma non brucia e in cui Ella si riflette. È la stilla che desta il soffio. La Madre celeste avverte l’anima che durante la vita dovrà perfezionare il suo spirito vitale, la scintilla di fuoco lunare che le accende il sangue, altrimenti non tornerà al mondo divino ma sarà costretta a reincarnarsi. I re ghanesi celebravano un rito di quando in quando per rinnovare il bagno primordiale nell’acqua di vita… Questi fondali, anteriori e posteriori alla nascita, sui quali si proiettava la vita, conferivano un sentimento augusto.
Così le retoriche della reincarnazione in Africa, Australia e altrove in Asia, aiutavano anch’esse a sentirsi nell’alveo di un destino, come insegna Platone nel Mestone pensando che se l’anima per rinascere deve morire, occorrerà mantenerla pura. Tali rettoriche contengono un insegnamento. Infatti come può un uomo ignaro di metafisica in mancanza di simili soccorsi, abbandonarsi alla trama della vita riponendo piena fiducia nella causa che lo portò a nascere, e che comunque fece accadere la realtà universale e il tempo stesso?
Gli antichi sapevano che occorreva edificare un’impalcatura rettorica cui l’uomo comune potesse appog- giarsi per staccarsi dalla morsa della vita quotidiana. In certe cerimonie africane si ingiunge in modo tassativo: «Di’: Il cadavere non è morto! Afferma: Il cadavere è risuscitato!»; nei misteri egizi e mitraici il fedele doveva gridare perentoriamente affermazioni affini. Una volta pervaso da tali certezze l’uomo comune riesce a trascendersi: l’aldilà, le vite trascorse e l’esistenza futura sono modi di estendere la persona modificandola fino a distruggerla virtualmente; aiutano a scavalcare se stesso anche chi non concepisca la liberazione dal proprio io, ma soltanto la sua salvaguardia. Il destino è l’idea liberatrice per eccellenza. E il tema delle fiabe, tutte «tessute sull’enigma della sorte, dell’elezione e della colpa. A volte la gloriosa avventura tocca all’innocente, al semplice pastore, alla ragazza murata nella torre; altre volte una forza imperiosa spinge gl’inquieti alle partenze senza ritorno… Ma una forza più imponderabile ancora istiga tutti costoro all’infrazione, alla provvida colpa…
Va nelle fiabe la sorte più splendida a colui che senza speranza si affida all’insperabile… Chi si affida… sa ragionare a rovescio, discernere cioè il filo segreto, l’inspiegabile gioco d’echi».
Destino e romanzo:
H romanzo antico altro non era se non un cercare, da parte dei protagonisti, il disegno della propria sorte frammezzo ai rovesci della fortuna e a «errori» assai simili alle disarmonie e alle procelle che turbano ma non cancellano l’ordine delle stagioni. Il romanzo narrava natali oc- cultati, traversie, mascheramenti, peripezie, in ultimo risolti dal fato trionfante, il quale celebrava la propria vittoria finale con l’agnizione, il ricongiungimento di coloro che, predestinati a unirsi, erano stati separati dal caso. Il romanzo rassicurava che il fato trionfa dei frangenti fortunosi, che l’essenza è permanente e l’accidente temporaneo. Consolazione non fraudolenta, perché la vita comunque non vale la pena d’essere vissuta se non ha forma, se non si sa che ha sempre un suo punto di fuga prospettica. La buona vita è quella in cui gli incidenti sono del tutto pertinenti al carattere di chi li vive: gli stanno bene. Il romanzo antico era ima trasposizione popolare dei motivi religiosi, come illustra chiaramente Apuleio: «Le vicissitudini dell’esistenza corrispondevano alle mitiche traversie di Iside… alle peripezie del dramma sacro: naufragio, caduta in mano ai ladroni e via elencando», perché, come diceva Sinesio, nel mondo materiale si ripete di continuo il mito divino al modo in cui si varia in musica un medesimo tema.
Invero se si trasaliva soavemente dinanzi alle verità che il culto isiaco svelava, ecco, di riflesso, che tutta la propria vita appariva, in retrospettiva, una ricerca inconsapevole di questa rapinosa illuminazione, tanto che per- fino gli errori assumevano un colore provvidenziale: in- fatti soltanto per quella strada seminata di quegli ostacoli e non per altra si era giunti e si poteva giungere a tanta pace; come se una guida invisibile avesse condotto lungo l’intero tragitto, suggerendo quel passo, disponendo quella situazione.
Il custode del destino:
L’esultanza, l’ardimento di chi si sa in buona guardia e ben guidato, costituisce nell’uomo una disposizione superiore allo stato consueto all’anima e all’animo; il luogo dell’interiorità dove si incontra il proprio custode e il proprio destino, e dunque la sapienza, è il più alto e soave. Le lingue turco-mongoliche ne celano il profondo concetto ricavando l’espressione che denota il custode soprannaturale dalla stessa radice (dxaian, iaion) che forma le parole «destino» e «Creatore»; in greco daimon significa insieme genio e destino.
Per un uomo moderno evidenze del genere sono quasi irricuperabili, come scrisse Artaud a proposito del culto del peyotl presso i Tarahumara del Messico: «un Europeo non accetterebbe mai di pensare che quanto ha sentito e percepito nel proprio corpo, l’emozione da cui è stato scosso, la strana idea che ha appena avuto e che lo ha entusiasmato per la sua bellezza, non sia sua, e che un altro abbia sentito e vissuto tutto questo proprio nel suo corpo, o allora penserebbe di essere pazzo… ma la differenza fra lui e un alienato è che la sua coscienza personale si è accresciuta in quest’opera di separazione e di distruzione interna a cui l’ha condotto il peyotl e che rafforza la sua volontà».
Oltre all’anima e allo spirito (all’ombra e al vento) l’uomo ha un suo genio (il suo custode)… La coscienza del proprio genio era un tempo abbastanza comune… Nel vario gioco d’influssi che intreccia la vita, spesso il custode individuale si confonde con quello della comunità… Quando si è visitati dal proprio genio è come ci si sentisse abitati o visitati da un ente propizio e ispiratore, o accompagnati dalla propria fiera prediletta: le due immagini sono convertibili l’una nell’altra.
La buona e la cattiva custodia:
Lo sciamanesimo spesso attribuisce due custodi all’uomo, il buono associato alla spalla destra, il maligno alla sinistra e li confermano il Talmud e il Corano.
… Spesso è difficile discernere se un genio è buono o ini- quo, poiché i primi approcci d’un genio buono sono spesso segnati da una malattia.
… La malattia preliminare è spesso catatonica: come se il colpito soggiacesse a un incubo; sono frequenti le convulsioni negli uomini, la svogliatezza e il rifiuto del cibo nelle donne, talvolta il comportamento è pervertito, proprio del sesso opposto: così la gaiezza frivola e petulante d’un uomo indica che egli viene «cavalcato» da un genio femminile.
… E i neoplatonici insegnavano che la malinconia saturnina predispone alla coscienza filosofica: la disposizione fredda e cupa, improntata al lento pianeta Saturno, resta infatti tale soltanto finché non sia sublimata in un distacco contemplativo invece di esasperarsi in modo tetro e distruttivo, impegnandosi nel mondo.
… Robert Graves in King Jesus immagina, sulla notazione del Vangelo di Marco secondo cui il Cristo «era con le bestie» nel deserto, che le fiere emblematiche dei vari peccati venissero tramutate in guardiani, grazie alla forza sviluppata dal digiuno.
La scoperta del custode:
Conoscere il proprio destino o genio è il sommo dei pri- vilegi. L’uomo comune lo scorge soltanto al momento della morte.
Occorre andare di là dall’io, morire a se stessi come persona composta di corpo e anima, se lo si vuole cogliere. Per propiziare questa penetrazione, per internarsi dietro il riflesso della propria immagine, si consiglia di rasentare la morte; lanciandosi da un dirupo o correndo rischi analoghi, si ottiene quella rimembranza integrale, fulminea dell’esistenza passata che ne scavalca i limiti e fa conoscere ciò che segretamente la regge o se si preferisce, la sua essenza. Questa sarà veduta o si tradurrà molto spesso nella qualità propria d’una bestia qualora si sia avvezzi a far buon uso delle bestie, ad assimilarne per simpatia le facoltà.
Presso i Kwakiud , i geni custodi dell’uomo, buoni o malvagi, sono anche detti ha’yalilagao («donna che mette a posto») e comprendono lo spirito del fuoco e i morti detti la lenox, termine la cui radice significa «lo spettro del morto tocca e fa ammalare». L’anima non ha ossa né sangue, è simile al fumo o a un’ombra ed è detta bescewene «corpo umano lungo» o «maschera umana» o «uccello»; siede sulla fontanella del cranio e abbandona il corpo nel sogno. La sua assenza rende deboli e riafferrarla spetta allo sciamano. Ha forma di civetta e ognuno ha la sua, legata al proprio destino. Dagli spiriti custodi si ricevono i «tesori», figli, visioni, amuleti, e il canto sacro.
Come s’intrattiene il custode: Comunque si ottenga la conoscenza del proprio genio custode, il primo dovere è dare ascolto agli impulsi, riverire le illuminazioni e interpretare i sogni che da lui provengono.