La notizia dell’apertura di un ufficio in Qatar è stata ufficialmente confermata da alcuni esponenti talebani. Malgrado i colloqui informali tra Stati Uniti e talebani siano in atto da tempo, la comune volontà di stabilire un dialogo ufficiale è un elemento importante per l’Afghanistan e la regione circostante. Le trattative dopo dieci anni di guerra sono legate all’attuale contesto geopolitico, ma un fattore rilevante è rappresentato dal ruolo diplomatico del Qatar, un mediatore il cui peso geopolitico è in costante ascesa.
I motivi geopolitici alla base del dialogo
Le motivazioni principali che hanno spinto gli Stati Uniti ad intensificare il dialogo con i talebani sono legate all’attuale difficile situazione del contingente NATO in Afghanistan. In preparazione dell’annunciato ritiro del 2014, ma avendo comunque come obiettivo il mantenimento di una base militare nel paese, Washington sembra individuare nel dialogo con i talebani e nel loro ritorno sulla scena politica due fattori chiave per la stabilizzazione del paese, favorendo i propri interessi. Recentemente il vice-presidente statunitense Joe Biden in un’intervista pubblicata sul settimanale “Newsweek” ha affermato che i talebani non sono i nemici degli Stati Uniti in Afghanistan (Joe Biden On Iraq, Iran, China and the Taliban). In chiave elettorale, inoltre, un esito positivo dei colloqui potrebbe risultare importante per la candidatura di Obama alle elezioni di fine anno.
Le trattative sono ufficialmente spiegate in nome della stabilizzazione e pacificazione etnica dell’Afghanistan. Un altro elemento fondamentale riguarda il progetto della cosiddetta “Nuova Via della Seta” a guida statunitense nella quale Kabul, data la sua particolare posizione geografica, ricopre un ruolo di primo livello. Nell’attuale contesto geopolitico Washington sta perdendo la propria influenza in Asia Centrale e Meridionale. Negli ultimi anni il governo di Karzai ha optato autonomamente per il dialogo con la controparte talebana, vista la sua crescente influenza nel paese. Almazbek Atambayev, neo-eletto presidente del Kirghizistan, ha annunciato che la base militare statunitense di Manas verrà chiusa nel 2014, mentre la OTSC (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva di cui fanno parte Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan) ha stabilito che a partire da quest’anno la realizzazione di una base militare di un paese terzo, esterno all’organizzazione, in uno degli Stati membri dovrà ricevere il consenso di tutti i restanti paesi della OTSC, un organismo strettamente connesso alla Russia. Il Pakistan, dopo l’incidente del 26 novembre, quando un bombardamento NATO uccise 24 soldati pakistani, non ha solamente boicottato la conferenza di Bonn sull’Afghanistan del 5 dicembre, ma ha anche interrotto le linee di rifornimento della NATO passanti per il proprio territorio e dirette ai valichi di confine con l’Afghanistan. Washington potrebbe utilizzare come alternativa i territori russo, kazako, uzbeko e tagiko, in questa fase un’opzione improbabile e dai costi maggiori rispetto a quella pakistana. Islamabad ha stabilito, inoltre, la chiusura della base aerea statunitense di Shamsi in Belucistan, mentre nello stesso tempo sta rafforzando i legami con Pechino e Mosca. In questo contesto Russia e Cina, così come gli Stati Uniti, sono interessati al futuro dell’Afghanistan, guardando al Pakistan, il quale gioca un ruolo geopolitico fondamentale. Unitamente ai discorsi legati alle risorse energetiche e ai corridoi strategici, è importante sottolineare la recente attenzione posta per il trasporto interno ferroviario. Le autorità afghane hanno intavolato delle trattative per la costruzione di nuove vie commerciali con i paesi limitrofi, ma la stessa NATO osserva il potenziamento della linea ferroviaria afghana interna collegata a Termez, città di confine dell’Uzbekistan, come una possibile opportunità di supporto alle proprie truppe, alternativa al corridoio meridionale pakistano. Allo stesso tempo però la Cina ha aumentato la propria attenzione verso l’Afghanistan ed è pubblica l’intenzione cinese di favorire la costruzione di una linea ferroviaria che colleghi Xinjiang, Kirghizistan, Tagikistan e Afghanistan, alla quale potrebbero aggiungersi dei collegamenti meridionali con Iran e Pakistan. E’ sempre più evidente dunque l’emergere di una cooperazione regionale tra Afghanistan, Russia, Cina, Pakistan, Iran e i paesi dell’Asia Centrale. Per quanto riguarda Kabul, il governo Karzai ha recentemente firmato con Cina e Iran due importanti accordi petroliferi. La China National Petroleum Corporation (CNPC) ha ottenuto i diritti per l’esplorazione e l’estrazione di petrolio nell’area lungo il fiume Amu Darya a ridosso del confine con Turkmenistan e Uzbekistan. Per quanto riguarda l’Iran è stato firmato un accordo che prevede la vendita di petrolio iraniano a Kabul, un fattore emblematico del calare dell’influenza statunitense soprattutto in una fase in cui Washington spinge per un aumento delle sanzioni economiche contro Tehran. Gli Stati Uniti giudicano negativamente l’ascesa cinese in Asia Centrale e in Afghanistan, ma soprattutto paventano la crescente influenza iraniana su Kabul. L’Afghanistan in un primo momento ha accolto negativamente la prospettiva di un possibile dialogo con i talebani in Qatar, sponsorizzato da Washington e al di fuori dei propri confini nazionali. Soprattutto esiste il pericoloso riconoscimento internazionale di un’entità ancora in aperta guerra contro il governo Karzai, il quale contemporaneamente ha rafforzato i rapporti con Iran, Pakistan, Cina e India. Kabul individuava come possibili sedi dell’ufficio talebano, alternative a Doha, altre capitali di paesi islamici, ad esempio in Turchia o Arabia Saudita. L’Afghanistan, malgrado le proteste iniziali, ha dato successivamente il suo assenso all’iniziativa, probabilmente poiché il governo Karzai non può stabilire un dialogo autonomo con i talebani senza la presenza statunitense. Inoltre, in questo contesto l’uccisione di Burhannuddin Rabbani del settembre scorso, esponente politico favorevole al dialogo, ma vicino ad hazara, uzbeki e tagiki dell’Afghanistan settentrionale, nonché pericoloso concorrente per i talebani vicini alle tribù pashtun, assume una valenza diversa.
Perché il Qatar?
L’ufficio talebano verrà aperto a Doha, avrà i privilegi, ma non la protezione formale delle rappresentanze diplomatiche. Si tratta del primo riconoscimento ufficiale dei talebani a livello internazionale dopo l’attacco statunitense del 2001.
La scelta del Qatar come mediatore ha delle motivazioni ben precise. Doha è uno dei principali alleati degli Stati Uniti nell’area e ha recentemente svolto un ruolo di primo piano nelle rivolte arabe, adottando una strategia confacente agli interessi di Washington, soprattutto nei casi libico e siriano. L’Emirato del Golfo Persico ha sostenuto a livello economico e militare i ribelli libici contro il regime di Gheddafi ed è il maggiore promotore delle sanzioni stabilite dalla Lega Araba contro la Siria. A Doha è presente la sede del canale satellitare pan-arabo Al Jazeera, il quale ha avuto un ruolo fondamentale a livello informativo per le recenti sommosse. L’ascesa geopolitica di Doha rappresenta il coronamento di una strategia in politica estera iniziata nel 1995, quando l’attuale emiro Sheik Hamad bin Khalifa Al Thani rovesciò mediante un incruento colpo di Stato il governo del padre. Il nuovo sovrano cominciò a creare le basi per trasformare le relazioni internazionali del piccolo regno, avente un’economia florida grazie alle esportazioni di idrocarburi e diventato in pochi anni uno Stato dinamico a livello geopolitico. L’obiettivo principale è essenzialmente una proficua relazione con tutti, elemento che ha permesso al Qatar di assumere il ruolo di fondamentale mediatore nei contrasti dell’area vicino-orientale.
La geografia aiuta in parte a comprendere la politica estera del paese arabo degli ultimi dieci anni. Situato tra i due più importanti attori regionali, Iran e Arabia Saudita, competitivi a livello economico, militare e religioso, Doha ospita una delle più importanti basi militari statunitensi della regione, Al Udeid. Il Qatar nell’ambito della stretta alleanza con Washington ha dato il consenso affinché Al Udeid fosse la base di partenza dei bombardamenti statunitensi in Iraq, Somalia e Afghanistan. Per quanto riguarda l’Iraq, Doha è risultata fondamentale per stabilire i canali di dialogo tra Washington e i capi sunniti del paese. Paradossalmente però, malgrado il Qatar sia uno dei paesi cardine del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e a livello strategico mantenga un solido rapporto con Riyad nel rafforzamento dell’islam sunnita nel Vicino e Medio Oriente, i rapporti diplomatici con l’Iran sono considerati positivi. Doha e Theran condividono il più grande giacimento di gas naturale a livello mondiale, il South Pars/North Dome. I legami con l’Iran, ma soprattutto le critiche verso le sanzioni imposte per il programma nucleare iraniano mal viste da Washington, così come l’ascesa geopolitica del vicino qatariota degli ultimi anni hanno spesso portato l’Arabia Saudita a considerare negativamente il Qatar. Alcuni analisti sostengono che il recente cambio al vertice dell’emittente Al Jazeera con le dimissioni del direttore generale Wadah Khanfar sia collegato all’irritazione saudita e giordana per il modo in cui il canale satellitare ha trattato alcuni aspetti delle rivolte arabe.
L’attivismo qatariota in politica estera si è distinto in Palestina nel 2006, durante la mediazione tra Hamas e Fatah; nel 2007 in Yemen, favorendo il dialogo tra governo e movimento sciita degli Houthi; in Libano nel maggio 2008 nei colloqui tra governo ed Hezbollah; in Sudan nel 2010 nella fase finale della guerra del Darfur. La mediazione del paese tra autorità governative e vari gruppi politici, dovuta soprattutto al proprio peso a livello economico e alla condivisa considerazione del carattere di “neutralità” di Doha nelle differenti dispute, ha comportato l’ascesa geopolitica del Qatar, grazie al ruolo del primo ministro e titolare del dicastero degli esteri Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani. In ogni caso questo ruolo ha creato e potrebbe comportare dei problemi a livello diplomatico. Il Qatar mantiene solidi legami con Israele, ma allo stesso tempo anche con l’Autorità Palestinese, Hamas, sostenuta economicamente nelle elezioni del 2006, ed Hezbollah. Fino a pochi anni fa esisteva un forte rapporto anche con la Siria, in particolare con Assad, oggi invece principale nemico nel Vicino Oriente per il mutato contesto geopolitico. Per quanto riguarda la questione siriana Doha mantiene un solido legame con Turchia, Arabia Saudita e Israele. Il Qatar aveva dei solidi legami anche con i separatisti ceceni e anche per questo motivo Mosca non ha avuto negli ultimi anni dei rapporti diplomatici proficui con l’Emirato del Golfo Persico.
Per quanto riguarda la mediazione tra talebani, Stati Uniti e governo afghano, la scelta di Doha è dunque legata al ruolo diplomatico di primo livello assunto dal paese negli ultimi anni. Il Qatar, alleato strategico di Washington nell’area, incarna sostanzialmente una politica estera nella quale se da una parte è necessario un punto di svolta o un cambiamento politico, esemplificato nel recente appoggio alle sommosse arabe, dall’altro lato questo deve avvenire mediante il mantenimento di un sostanziale conservatorismo nella politica interna ed estera dei paesi coinvolti, senza gravi sconvolgimenti a livello geopolitico. Nell’attuale contesto la religione islamica rappresenta l’elemento garante dello status quo regionale favorevole al Qatar e indirettamente agli Stati Uniti, incanalando secondo le proprie aspettative i gruppi moderati o radicali. In una fase in cui si registra il declino dell’influenza statunitense nell’area che va dal Vicino Oriente all’Asia Meridionale, Washington, impossibilitata a gestire un intervento diretto dai costi troppo elevati, osserva nell’azione di mediazione qatariota, “ponte” tra mondo arabo/musulmano ed Occidente, una garanzia per il soddisfacimento dei propri interessi geopolitici, ma anche economici, vista la condivisione da parte del Qatar del modello del libero mercato globale. Doha non rappresenta più solamente il mediatore, ma anche il supporto economico e militare per determinati gruppi politici e il “ponte” per interagire con i gruppi islamici radicali o moderati e i partiti legati all’universo della Fratellanza Musulmana in Libia, Egitto e Siria.
In Afghanistan l’azione della NATO è in crisi, mentre il Qatar potrebbe risultare il garante della mediazione tra talebani e comunità internazionale. I talebani erano già stati sostenuti nel passato da Doha, la quale ospitò una delegazione dell’Emirato afghano prima dell’attacco statunitense del novembre 2001. L’Arabia Saudita potrebbe essere stata esclusa per i suoi consolidati legami con i talebani e il Pakistan; mentre l’opzione turca, nonostante Ankara sia un paese islamico, era probabilmente poco adatta. La Turchia è paese membro della NATO, dunque poco “neutrale” per un ruolo di mediazione tra talebani e Stati Uniti. Sarà interessante valutare anche quale azione intraprenderà Doha nel sempre più acceso confronto tra Stati Uniti e Iran. L’opzione di mediazione in questo caso sembra più difficile.
Alcune conseguenze del dialogo. In vista un miglioramento dei rapporti con il Pakistan?
Per quanto riguarda Islamabad, l’apertura di un ufficio in Qatar potrebbe essere letta come un’azione da parte di Washington al fine di dialogare direttamente con i talebani senza l’influenza del Pakistan. Islamabad verrebbe esclusa dal dialogo assieme alla rete Haqqani, nonostante Washington abbia instaurato dei canali anche con questa organizzazione. In Pakistan si susseguono le voci di possibili colpi di Stato, mentre potrebbe tornare sulla scena politica il generale Pervez Musharraf, il quale ha recentemente criticato il ritiro statunitense dall’Afghanistan nel 2014.
Le problematiche legate al dialogo saranno in ogni caso molteplici. I talebani hanno probabilmente accettato il dialogo per consolidare la loro attuale posizione di forza soprattutto nel sud del paese. Bisognerà soprattutto comprendere chi rappresenterà i talebani in Qatar; non esiste un solo gruppo talebano, ma molteplici sigle e organismi collegati, mentre le alleanze si dissolvono in poco tempo. Recentemente sembra che ci sia stata una riorganizzazione della struttura talebana lungo la linea Durand con la creazione di un unico organismo, la Shura-e-Murakbah includente il gruppo legato al Mullah Omar e la rete Haqqani per l’Afghanistan, Hakimullah Mehsud, emiro dei talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban Pakistan TTP), Waliur Rehman e Mulla Nazir (militanti del TTP) per il settore pakistano. Questa unione potrebbe comportare un incremento delle azioni militari lungo la linea Durand per ottenere un maggior potere negoziale.
I talebani hanno chiesto il rilascio di alcuni detenuti nelle prigioni di Guantanamo, mentre gli Stati Uniti potrebbero consegnare all’Afghanistan via-Qatar Mullah Mohammed Fazl, uno dei più stretti collaboratori del Mullah Omar e principale figura della guerra civile afghana durante gli anni ‘90. Sembra difficile un suo completo rilascio, ma potrebbe essere una chiave per facilitare il dialogo con la potenziale inclusione del Pakistan, poiché Fazl era nel passato strettamente legato all’ISI pakistana. Inoltre, è un esponente anti-sciita, avverso all’Iran e alle etnie settentrionali dell’Afghanistan, rappresentate fino a settembre dalla scomoda figura, in ottica talebana, di Rabbani. Dunque la stabilizzazione etnica dell’Afghanistan è tutt’altro che sicura. In questo quadro, inoltre, i legami afghano-iraniani e iraniano-pakistani entrerebbero probabilmente in crisi. Bisognerà successivamente comprendere se i talebani daranno il loro assenso a un’eventuale presenza straniera anche dopo il 2014, abbandonando effettivamente la guerra contro la NATO. Sarà necessario, infine, analizzare l’azione del Pakistan, vista l’influenza che esercita su alcuni gruppi talebani. Islamabad ha iniziato recentemente le trattative con i gruppi talebani del TTP operanti nelle FATA, un fattore che potrebbe comportare migliori rapporti con Afghanistan e Stati Uniti.
Francesco Brunello Zanitti è ricercatore dell’IsAG e autore del libro Progetti di egemonia